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Riflessioni

Il nostro lavoro comporta un’attenzione costante alle dinamiche evolutive che percorrono la società, la politica, l’economia, ma anche al mutare delle opinioni, delle percezioni e del complesso dei modi di pensare e raccontare la realtà, sia in Italia che in Europa e nel mondo.
La necessità di fornire ai nostri committenti le analisi più affidabili e professionali possibili, nonostante i ritmi serrati della quotidianità, ci costringe a fermarci e riflettere...

Di questi momenti vogliamo fare buon uso. Quale miglior uso se non quello di condividerne, almeno alcuni, con coloro che visitano queste pagine?

 

NIENTE SFUMATURE: SIAMO EUROPEI
Il mondo spesso è un po' più complesso di come ci fa comodo pensarlo

12-11-2012

Noi Europei abbiamo un vizio: guardiamo al resto del mondo con occhi europei, lo etichettiamo con categorie europee, ne giudichiamo costumi, norme scritte e non scritte, forme di governo, linguaggi e comportamenti politici senza mai per un attimo smettere l’abito mentale del pensiero politico europeo. Un tic vetero-coloniale, si direbbe. Il problema è che da quando l’Europa ha smesso di essere il fulcro ed il motore del progresso (e di tempo ne è passato!) l’atteggiamento snobistico ci si ritorce sistematicamente contro. Già, perché al contrario gli “altri”, quelli che ci hanno vissuti come colonizzatori e si sono affrancati da noi, ci conoscono fin troppo bene e sanno come riuscirci graditi a loro vantaggio.

Il ricordo corre a quando un famoso primo ministro italiano, in una tempestosa seduta parlamentare, osò paragonare Arafat e l’OLP a Mazzini e al moto nazionale italiano, suscitando, per così dire, la perplessità occhiuta ma per nulla infondata di chi della tradizione risorgimentale e repubblicana vestiva i panni di vestale. Un abbaglio gravoso di conseguenze, visto che sul dogma, così tipicamente europeo e romantico, dei “due popoli, due Stati”, si è arenata ogni speranza di edificare una pace duratura in Medio Oriente.

Da ultimo, ecco l’eco sbiadita della campagna elettorale americana animare inutili scintille polemiche nel nostro dibattito interno. Persino un membro del Governo “tecnico” si è preso la briga di congratularsi pubblicamente per la vittoria di Obama, a nome di tutti coloro che hanno a cuore il diritto alla salute. Niente di meno. Certo, che un liberal, artefice della prima estensione dei programmi di assistenza sanitaria dai tempi dell’introduzione di Medicare, conquisti praticamente senza combattere uno Stato come la California, un tempo roccaforte di un Presidente conservatore che lanciò la propria carriera politica proprio inveendo contro Medicare, è un fatto di portata storica. Peccato però che il suo avversario, da Governatore del Massachusetts, si fosse segnalato come autore di una delle più avanzate riforme sanitarie d’America ben prima che l’iniziativa partisse dal livello federale. Peccato che questo gli abbia causato l’inimicizia dei militanti conservatori, che lo hanno osteggiato alle primarie del Partito Repubblicano e che in lui vedono (ci siano testimoni i blog) niente meno che un epigono di Lenin!

Per non parlare, naturalmente, dell’immagine di “amico dell’Italia e dell’Europa” che i media hanno pervicacemente costruito attorno ad un Presidente che, all’una e all’altra, ha dispensato solo pagine di bella retorica. Quando Romney ha evocato il rischio che le politiche di Obama portassero gli Stati Uniti ad un dissesto finanziario paragonabile a quello della Grecia, della Spagna e dell’Italia, siamo sicuri che volesse denigrare questi Paesi e non, tanto per fare un’ipotesi, l’avversario che voleva sconfiggere? E quando il Primo Ministro italiano svolge, davanti a platee internazionali, considerazioni dello stesso tenore sulle politiche fiscali espansive, parla forse da nemico dell’Italia? E siamo sicuri che il Presidente votato dagli operai dalla Chrysler, salvata da FIAT con i denari del Tesoro USA, abbia interesse ad agire da amico dell’Italia?

Forse no. Ma il paradigma semplificatore del liberal profeta del multilateralismo che trionfa sul guerrafondaio finanziato dalle lobby non perde il suo fascino. Niente sfumature, per favore: la realtà è troppo complessa, e noi troppo presi dal nostro declino per indagarla.

 

 

L'EVIDENZA CHE NESSUNO (O QUASI) VUOL VEDERE
Se le tasse contano più delle licenze dei tassisti

25-06-2012 ...continua

Il dibattito sulla crescita, o meglio sul “perché l’Italia non cresce più” assomiglia a quei gialli nei quali la prova che incastra il colpevole è davanti agli occhi di tutti, eppure l’investigatore la scopre solo dopo essersi soffermato su particolari di scarso rilievo. Con una differenza: l’ingenuità dell’investigatore è un espediente letterario, mentre tanta insistenza su aspetti secondari nel dibattito sulla bassa crescita italiana ci induce a sospettare che si tratti di una distrazione ben meditata.

Basta dare uno sguardo ai dati Eurostat per scoprire uno svantaggio competitivo che forse penalizza l’Italia un po’ di più delle deplorevoli lungaggini burocratiche della sua Amministrazione. Vediamo. La tassazione implicita sul lavoro in Italia è la più alta d’Europa, al 42,6% contro il 37,4% della Germania e il 25,7% del Regno Unito. L’aliquota base sui redditi societari è del 27,5% in Italia (senza contare l’IRAP, con aliquota base al 3,9%) contro il 15% della Germania e il 24% nel Regno Unito.

Ancor più sorprendente è che, a fronte di una pressione fiscale sui redditi complessivamente più alta, la progressività del sistema fiscale italiano è minore rispetto ad entrambi i termini di confronto. Se consideriamo non più la tassazione media, ma quella sullo scaglione di reddito più alto, l’Italia passa dal primo al dodicesimo posto: tra i Paesi della vecchia Europa a 15, hanno tasse più basse sui più ricchi solo Francia, Lussemburgo e Irlanda.

È un’eresia suggerire che un sistema fiscale meno esoso probabilmente farebbe crescere il PIL più della liberalizzazione degli orari di apertura dei negozi? Oppure che aliquote minori sui redditi da lavoro della classe media darebbero nuova linfa alla domanda interna? O addirittura che aliquote più alte sui redditi dei ricchi correggerebbero una divaricazione della ricchezza ormai insostenibile?

O dobbiamo rassegnarci a sentir ripetere la litania delle riforme strutturali mentre il nostro Paese sprofonda nella diseguaglianza economica? Non vorremmo che quella litania fosse, più o meno consapevolmente, funzionale alla proletarizzazione del ceto medio, magari in nome del recupero di competitività, mentre i mezzi di informazione di massa intrattengono la vittima designata discettando dei pregi e dei difetti dell’aumento delle licenze dei tassisti.

 

NON ABBIAMO BISOGNO DI INFRASTRUTTURE?
Fenomenologia del benaltrismo

11-06-2012 ...continua

Due insigni economisti lanciano un monito al Governo italiano: la direzione è sbagliata. L’analisi è tanto spietata da suscitare un’espressione pubblica di risentimento da parte del Presidente del Consiglio. Tanto basta per incuriosirci: ma occuparcene diventa davvero un obbligo, quando ci ricordiamo che uno dei due economisti è ufficialmente incaricato di fornire “analisi e raccomandazioni” allo stesso Governo del quale non condivide la linea politica.

La storia che Alesina e Giavazzi ci raccontano ripercorre le orme delle argomentazioni che i due ci propongono da almeno un decennio. In estrema sintesi, l’Italia non cresce perché soffocata da un’Amministrazione pubblica pletorica ed inefficiente, e perché le sue istituzioni economiche non sono adatte a competere nel libero mercato. Di conseguenza, per rimettere il Paese su un sentiero di crescita sostenuta occorre attuare riforme strutturali che rendano l’Italia un terreno fertile per gli investimenti produttivi: liberalizzazioni, mercato del lavoro, giustizia civile, ordinamento universitario, semplificazioni burocratiche.

Curiosamente, i due illustri commentatori sono piuttosto evasivi su un particolare: il Governo Monti ha già varato provvedimenti di questo segno. Per quanto si possa legittimamente essere delusi da alcuni compromessi, non si può parlare di “passi indietro” dopo anni di totale inazione! Ma qual è l’effetto di queste politiche dell’offerta sulla crescita? Alesina e Giavazzi non lo dicono. L’FMI ha stimato che il livello del PIL italiano potrebbe essere più alto del 6% per effetto dell’insieme delle riforme strutturali. Ne siamo compiaciuti, ma questo dato vale più per quello che non dice, e cioè per l’implicita ammissione che l’effetto delle riforme strutturali sul tasso di crescita del PIL è talmente trascurabile da non poter essere stimato.

Alesina e Giavazzi non condividono l’idea del Ministro Passera di stimolare la crescita promuovendo gli investimenti in infrastrutture, fedeli al principio che “ad un Paese post-industriale non servono più infrastrutture fisiche”. Confessiamo di essere perplessi: 1) questo principio vale anche  per un Paese con la velocità commerciale media tra le più basse d’Europa? 2) da quando in qua la de-industrializzazione, una prospettiva da contrastare con ogni mezzo, è diventata un presupposto da accettare in modo acritico?

Soprattutto, pare disarmante che di fronte ad ogni proposta di rilancio delle infrastrutture i benpensanti inalberino il vessillo del benaltrismo: non solo perché questo ci suggerisce che il liberismo in salsa italica ha la stessa posizione dei no-TAV, ma perché ci chiediamo quali contorni abbia, di preciso, questo “ben altro” di cui l’Italia avrebbe bisogno. O davvero pensiamo che la differenza tra l’Italia e, poniamo, la Germania stia tutta nei tempi della giustizia civile?

 

“BRITANNIA 2”,
ovvero quando il linguaggio non descrive la realtà

04-06-2012 ...continua

Governo Monti è stato una benedizione. Per altri, semplicemente il male minore. Ma da più parti, la nomina del Professore è stata associata al terribile sospetto che i “poteri forti” della finanza internazionale intendessero approfittare delle difficoltà dell’Italia per completarne il saccheggio:distruzione delle conquiste dei lavoratori, liberalizzazioni selvagge, ma soprattutto svendita del patrimonio industriale ancora in mano pubblica. Un complotto, insomma: o meglio, la fase finale di un grandioso progetto di colonizzazione di un Paese un tempo florido e felice, noto ai meglio informati come “Operazione Britannia”.

A distanza di alcuni mesi, ci pare il caso di ricordare sommessamente ai professionisti della teoria del complotto alcuni semplici fatti. Il patrimonio mobiliare dello Stato è, ad oggi, intatto rispetto a quando “il Governo delle banche” si è insediato. Il riequilibrio dei conti pubblici è stato perseguito secondo il principio che ispira da più di 20 anni le politiche economiche dei Governi italiani: aumentare la pressione fiscale. Se proprio si rendessero necessarie operazioni sul debito pubblico, all’orizzonte si intravvede solo la manovra contabile di “vendere” aziende controllate dal Tesoro alla Cassa Depositi e Prestiti: non esattamente una privatizzazione, visto che la Cassa si alimenta con il risparmio postale degli Italiani ed è controllata proprio dal Tesoro!

Non è tutto. Lo spietato agente della City che siede a Palazzo Chigi ha imposto ad Eni di vendere la rete di trasporto del gas. Ma il tripudio scomposto dei nipotini nostrani di Milton Friedman si è smorzato alla notizia che, nonostante le pressioni amplificate dalla stampa estera, a beneficiare della separazione proprietaria non sarebbe stato il mercato, ma ancora una volta la Cassa Depositi e Prestiti. E probabilmente si è mutato in rassegnazione quando l’attivismo del Fondo Strategico Italiano ha dimostrato che l’utilizzo della Cassa non è un espediente occasionale, ma risponde al disegno di preservare il tessuto produttivo nazionale in settori strategici come la banda larga, l’aerospazio e il biomedicale tramite un’espansione (indiretta) del controllo pubblico.

Un momento: questa non è per caso… politica industriale? E Mario l’agente fallimentare non agisce forse in continuità, negli obiettivi come negli strumenti, con Giulio il dirigista che lo ha preceduto, solo con meno orpelli retorici e un pizzico di efficacia in più? E a chi giova, allora, avvelenare il dibattito sulle riforme evocando ad ogni pie’ sospinto lo spettro dell’Operazione Britannia? Non all’Italia, questo è certo.

 

IL MONDO È PIATTO …
nella mente di chi così lo vuole!

21-05-2012 ...continua

Al riparo dal clamore (e dal controllo) del dibattito pubblico, si fa strada nei circoli che dirigono il sistema universitario italiano l’idea che sia arrivato il momento di generalizzare i corsi di laurea in lingua inglese. Pioniere di questa proibitiva palingenesi dell’educazione superiore, tra le proteste dei docenti del suo stesso Ateneo, è il rettore del Politecnico di Milano. Il suo progetto è quello di far scomparire l’italiano come lingua di insegnamento in tutti i corsi di laurea magistrale a partire dal 2014.

I motivi? Attrarre un maggior numero di studenti stranieri: in Inghilterra sfiorano il 20%. Vero: ma siamo sicuri che gli studenti più brillanti aspirino ad accedere ad Oxford o ad Harvard perché lì si parla inglese? Non sarà piuttosto che imparare l’inglese si rende necessario agli studenti più brillanti ed ambiziosi perché gli Atenei dei Paesi anglofoni sono più prestigiosi dei nostri? E se così fosse, a cosa servirebbe cambiare la lingua di insegnamento se i nostri Atenei rimangono in fondo alle classifiche internazionali?

L’élite intellettuale che nel colpevole disinteresse di quella politica ha di fatto governato l’Università italiana, con risultati che oggettivamente non le fanno onore, d’improvviso scopre una panacea che la solleva da ogni responsabilità. Niente paura! Il problema dell’Università italiana non sta nella qualità dell’insegnamento, o nel reclutamento dei suoi docenti: il problema è che è troppo… italiana!

Chiariamo: i giovani italiani devono imparare a parlare e lavorare in inglese, come i loro coetanei in tutto il resto d’Europa. Ma confidiamo che questo obiettivo si possa raggiungere senza sradicare dalla loro formazione il patrimonio culturale di cui la lingua italiana è custode. Abbiamo il sospetto che rendere l’Italia una provincia del mondo “piatto” (un mondo che non esiste se non nella mente e nei progetti delle élite che lo vogliono edificare) non abbia altro effetto che accelerarne il declino. E ci farebbe piacere, da cittadini, che la politica dedicasse un po’ più di attenzione alle sorti del sistema educativo (e dell’identità culturale?) del Paese che ha l’ambizione di governare.

 

DOPO LE ELEZIONI:
orfani di un partito conservatore

15-05-2012 ...continua

Come decifrare il quadro che ci consegnano le recenti elezioni amministrative? L’impressione di uno smottamento nell’area moderata è innegabile; eppure, spiegarla con il declino del consenso personale di Berlusconi e con il montare dell’anti-politica ci pare semplicistico.

Non si può archiviare l’egemonia berlusconiana sui moderati senza almeno provare a comprendere per quale motivo un partito nato per essere protagonista di una competizione bi-partitica appaia, dopo quattro anni, a rischio di sopravvivenza. La ragione ci pare inscritta nel difetto di origine che accomuna il Pdl a qualsiasi altra formazione di area moderata nella storia d’Italia, cioè l’incapacità di dar vita ad un partito politico moderno, nel quale la naturale dialettica tra centro e periferia arricchisca la costruzione del profilo programmatico senza pregiudicarne il respiro nazionale.

Al contrario, dai notabili dell’Italia liberale alle correnti democristiane, fino alla proliferazione dei “co-fondatori” del Pdl, l’area politica moderata è stato il luogo di convergenza di élites locali tra loro fortemente disomogenee, pronte a mettere temporaneamente il proprio autonomo bacino elettorale a disposizione di un progetto politico nazionale in cambio del riconoscimento di istanze territoriali. Il fallimento delle riforme strutturali nell’ultimo decennio, da quella istituzionale a quella fiscale, nasce appunto dal carattere permanentemente precario delle formazioni politiche guidate da Berlusconi. Non partiti, ma combinazioni occasionali di alleanze attorno ad una leadership carismatica, apparentemente incontrastata ma condannata al compromesso.

A giudicare dai risultati delle elezioni, l’area moderata è ancora ben riconoscibile e forse persino maggioritaria. Solo che al Sud, e soprattutto in Sicilia, è giunta a compimento l’implosione del partito unitario del centro-destra nelle componenti personalistiche che lo avevano costituito. Mentre il ceto medio del Nord, orfano di un partito conservatore di ambizioni, struttura e progettualità davvero nazionali, esprime col voto per movimenti di protesta il proprio disagio per la cronica inadeguatezza dell’offerta politica.

 

CRISI E AMBIENTALISMO …
anche i verdi guardano al portafoglio?

08-05-2012 ...continua

Effetto serra, buco dell’ozono, riscaldamento globale, mutamenti climatici, cap and trade? Parole che non scaldano più i cuori e non svegliano le coscienze. Anche questo colpa della crisi? Negli Usa il numero di coloro che sono preoccupati per l’effetto serra ad esempio continua a calare da 5 anni, la polarizzazione politica si accentua (il 70% dei democratici teme l'impatto del riscaldamento del pianeta, mentre tra i repubblicani troviamo solo il 30% di preoccupati). Le associazioni ambientaliste si sono poste il problema del perché di questo crescente disinteresse. Tante le ragioni possibili: distanza sempre maggiore tra scienza e società? Poca efficacia del messaggio verde? Un’argomentazione ricorrente è stata la gente in questo momento ha ben altro a cui pensare (anche qui il buon vecchio benaltrismo?)

Quale potrebbe essere la soluzione per risollevare l’interesse? Tirare in ballo argomenti e temi che siano meno lontani dalla vita quotidiana. I movimenti verdi americani hanno quindi seguito l’esempio di quelli europei (italiani in particolare): soffermarsi sulle profonde radici culturali che legano al territorio ad esempio. La tavola è diventata quindi un canale di comunicazione molto forte con la proposta di preferire ad esempio cibi prodotti localmente rispetto alla produzione industriale. Ma non solo. Anche guardare al portafoglio ha fatto scegliere un nuovo lessico: bisogna imporre alle case automobilistiche di costruire motori a basso consumo? Certo, ma per farci risparmiare soldi dal benzinaio e per ridurre la dipendenza energetica dall'estero, mica per ridurre l'inquinamento.

Il tempo dei grandi principi, delle lotte globali per il bene dell’umanità è dunque è finito sotto l’impietosa scure della crisi?

 

DIETRO LA GUERRA AL PRIVILEGIO…
una guerra tra poveri?

16-04-2012 ...continua

C’era una volta la lotta di classe, assunto irrinunciabile di ogni analisi dei mutamenti economici e sociali. Ma ogni paradigma interpretativo vive la sua parabola: abbandonata la dialettica tra capitale e lavoro, i sociologi hanno scoperto quella tra i generi, tra generazioni e via dicendo.

Con l’arrivo della crisi, è stata la politica a fabbricare dal nulla una dicotomia che continua a monopolizzare il dibattito pubblico: impiego pubblico e privato.

Il pubblico impiego è stato descritto come il luogo del privilegio: un paradiso protetto dalla precarietà, dove la crisi non miete vittime e gli stipendi crescono più dell’inflazione. Ma proprio in virtù della maggiore protezione accordata, sono stati gli impiegati pubblici i destinatari prediletti delle misure di rigore: dall’innalzamento anticipato dell’età pensionabile per le donne ai contributi di solidarietà. Da ultimo, ecco il vecchio adagio riprendere vigore nelle pieghe delle consultazioni sulla riforma del mercato del lavoro.

Ci chiediamo se questo paradigma risponda davvero alla realtà che ha l’ambizione di descrivere e soprattutto se serva ad ispirare politiche eque e lungimiranti. Ha un senso mettere sullo stesso piano un commis d’état e un supplente? O non dovrebbe essere invece il livello del reddito il discrimine tra privilegiati e non, a prescindere dal datore di lavoro? Domande che acquistano un senso ancora più drammatico in un Paese che vede la distribuzione della ricchezza polarizzarsi a ritmi estranei al resto d’Europa. E che di tutto avrebbe bisogno tranne che di vedere esasperata una triste guerra tra poveri.

 

IL "SOGNO" DI HOLLANDE:
verso un'Europa politica?

26-03-2012 ...continua

Se misurassimo l'importanza dell'incontro di Parigi tra i leader della sinistra europea in base all'originalità delle soluzioni proposte, lo derubricheremmo a mero evento mediatico. Project bond, mandato della BCE e tassa sulle transazioni finanziarie: formule già evocate in questi mesi di pastoie negoziali.

Eppure merita attenzione il progetto di una piattaforma comune ai socialisti europei, in contraddizione con il blocco conservatore e con la sua gestione della crisi. È la carica innovativa della frase pronunciata da Hollande, "Je ne serai pas seul", a dare il segno di una svolta. Dalle macerie del modello sociale europeo e della crisi finanziaria globale, la sinistra cerca di emergere unita, in una inedita proiezione su scala continentale dell'esperimento della gauche plurielle, stretta attorno al "sogno europeo" di Hollande che ci sembra ben ancorato al Novecento e alla visione di Jacques Delors.

Se il "sogno" possa riaccendere le speranze degli elettori, ancora non è dato saperlo. È tuttavia significativo che la dialettica sulle scelte di politica economica, che al culmine della crisi sembrava riflettere gli interessi nazionali, ritrovi ora il suo alveo naturale nel discrimine tra socialisti e popolari. Viene da chiedersi se non sia proprio la rifondazione di uno spazio politico di respiro europeo la via maestra per costruire l'Europa politica, là dove ha fallito l'ingegneria costituzionale.

 

L’immagine è un particolare di Fuori Centro (2003) di Francesca Tulli.