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Gennaio 2022, Anno XIV, n. 1

Edgar Morin

Il Filosofo della Complessità

La complessità è una sfida alla conoscenza, al pensiero, all'azione. La nostra realtà, sia fisica, biologica o sociale, è uno strano cocktail di ordine, disordine e organizzazione."

Telos: Ad un sapere compartimentato e riduttivo, Lei ne oppone uno complesso, che abbatte le tradizionali barriere tra le discipline e permette di riempire il buco nero dei nostri sistemi educativi. Cosa significa insegnare la complessità?

Edgar Morin: La complessità è una sfida alla conoscenza, al pensiero, all'azione. La nostra realtà, sia fisica, biologica o sociale, è uno strano cocktail di ordine, disordine e organizzazione.
Per ordine intendo non solo il determinismo, ma anche la stabilità, la regolarità; per disordine intendo non solo il caso, ma anche il degrado, la collusione; per organizzazione intendo tutti i sistemi del nostro pianeta che sono stati creati, dall'atomo alle stelle fino alla specie umana. La conoscenza - come viene insegnata oggi - non riesce a far comprendere, e men che meno ad insegnare, la complessità: o separa i dati o vede solo confusione. Perché accade tutto ciò? Perché la conoscenza è governata dal paradigma della disgiunzione, cioè: vogliamo comprendere un insieme complesso a partire dai suoi elementi costitutivi, separati dal loro ambiente e dagli insiemi di cui fanno parte. La sociologia, per esempio, non tiene conto dell'individuo, la psicologia non tiene conto della società, l'economia dominante vuole apprendere solo attraverso il calcolo: crescita, PIL, sondaggi d'opinione, ecc. Ma questo calcolo elimina la carne e vede solo lo scheletro. Così si finisce per disgiungere l'uomo culturale dall'uomo biologico e imporre una visione tecno-economica, che non solo crede di conoscere esclusivamente attraverso i numeri, ma sogna una completa algoritmizzazione della società e dell'uomo. L'algoritmo ci permette di conoscere in anticipo le azioni di una macchina semplice, della quale possiamo prevedere i comportamenti non appena veniamo messi a parte dei criteri della sua programmazione. Peccato che l’uomo, per sua stessa natura, non è una macchina semplice, e men che meno scontata. L'evoluzione della vita è frutto di metamorfosi, la nostra vita è fatta di una successione di eventi inaspettati, rivelazioni e incontri che ci trasformano.
Questa visione riduttiva dell'uomo, della società, della vita, è all'origine degli errori e delle illusioni che hanno proliferato e proliferano ancora. È a questo modo di pensare, che separa e disgiunge, che io oppongo la conoscenza complessa, secondo il principio pascaliano che stabilisce ‘Poiché tutte le cose sono causate e causanti, aiutate e aiutanti, mediate e immediate, e tutte intrattengono un legame naturale e insensibile che connette le più lontane e le più differenti, ritengo sia impossibile conoscere le parti senza conoscere il tutto, come del pari conoscere il tutto senza conoscere nel dettaglio le parti.’ Questo principio di Pascal è stato a lungo ignorato perché abbiamo vissuto sulla base dei principi cartesiani del dividere e separare per conoscere. I principi di Cartesio sono stati utili nella specializzazione della conoscenza, ma hanno impedito qualsiasi visione d'insieme, qualsiasi visione globale, qualsiasi visione complessa.

In questa Sua visione come si inserisce il tema dei ‘sette saperi’?

Tutte le scienze includono, e in esse ritroviamo sparsi, elementi che riguardano l'uomo e l'umano, e tutte le scienze, compresa la conoscenza filosofica, devono per questo essere collegate. Questo è il motivo per il quale sostengo che la complessità si insegna: è essenziale allenare le menti a contestualizzare tutte le informazioni e le conoscenze fattuali, per essere in grado di integrare la conoscenza nel sistema in cui si trova e a cui partecipa. È quindi necessario insegnare i metodi che permettono di cogliere le relazioni reciproche e le influenze reciproche tra le parti e il tutto, in un mondo complesso. La mente che vuole conoscere si imbatte sempre in ambivalenze e contraddizioni. La vera conoscenza non è quella che le rifiuta - perché sarebbe riduttivo e semplificante - ma quella che le affronta. Dobbiamo insegnare a pensare che gli antagonismi possono essere complementari.
Il suo riferimento ad uno dei miei libri, pubblicato dall'UNESCO nel 1999, Les sept savoirs nécessaires à l'éducation du futur, mi fa molto piacere. Nel volume mi occupo, in particolare, dell'educazione all'etica del genere umano, alla comprensione umana, al confronto con le incertezze e all'identità terrestre. L'insegnamento dei sette saperi permette sia agli insegnanti che agli studenti di acquisire una cultura, cioè qualcosa che va oltre la specialità. È essenziale per gli studiosi di letteratura e filosofia attingere alle formidabili conquiste delle scienze, così come le scienze devono riflettere sulle proprie implicazioni sociali e culturali. Aggiungerei che la letteratura e la poesia non sono solo cose che ci danno belle emozioni. Ci insegnano cosa vuol dire essere umani, ci insegnano la vita. Queste sono conquiste fondamentali. Pertanto, tutto ciò che tende a ridurre le scienze umane a un sapere puramente tecnico e specializzato potrebbe essere definito barbaro. Il punto centrale dell'insegnamento dei sette saperi rimane quello che riguarda la condizione umana. Da nessuna parte viene insegnato cosa siamo noi esseri umani. Questo è un enorme buco nero nei nostri sistemi educativi. La complessa unità della natura umana è stata disintegrata nell'educazione attraverso diverse discipline. Parte dell'insegnamento della complessità è ripristinare l'unità della natura umana in modo che tutti diventino consapevoli e coscienti sia della loro complessa identità che della loro comune identità con tutti gli altri umani.

Lei parla spesso della necessità di un ‘dialogo tra civiltà’. Cosa intende? E cosa significa il concetto stesso di ‘civiltà’, in particolare in rapporto a quello di ‘cultura’?

Secondo la distinzione classica, proposta dalla sociologia tedesca del XIX secolo, chiamiamo cultura ciò che appartiene a un gruppo etnico, una nazione o una comunità - in altre parole i suoi costumi, le credenze, i riti, le celebrazioni, gli dei e i miti.... Mentre la civiltà è ciò che può essere trasmesso da una cultura all'altra. Per esempio, la coltivazione delle patate è stata trasmessa dall'America andina all'Europa e poi al resto del mondo, così come l'uso dell'aratro è iniziato in un angolo del mondo e si è diffuso ovunque. In altre parole, la civiltà è tecnica e materiale: è ciò che può essere trasmesso. Quindi quando parliamo di ‘dialogo tra civiltà’, intendiamo ‘dialogo tra culture’. Quando si parla di dialogo tra civiltà nel suo significato corrente, si pensa alla civiltà occidentale, o cinese, islamica, cristiana, iraniana, africana e così via. Eppure, se parlo di civiltà cinese, potrei riferirmi al Tao o al confucianesimo, e la civiltà islamica, per esempio, comprende paesi e popolazioni che hanno culture diverse. In breve, la civiltà e la cultura sono concetti vaghi e soggetti all'incertezza! Potremmo però ovviare a questa incertezza affermando che ‘Siamo diversi, abbiamo credenze e religioni diverse, ma le nostre caratteristiche particolari non dovrebbero impedirci di impegnarci nel dialogo’.
Dal mio punto di vista, le civiltà, o le culture, non dialogano. Solo gli individui possono impegnarsi nel dialogo, e si tratta di dialogo solo quando ognuno può esporre la sua tesi, produrre i suoi argomenti, e all'altro non è impedito fare lo stesso. Il vero dialogo è quando si riconosce la stessa dignità nell'altro: nessun dialogo è possibile tra un padrone e il suo schiavo. Presuppone l'uguaglianza - che è un punto di vista relativamente nuovo nella cultura europea! L'Europa occidentale ha dominato e sfruttato il mondo a partire dalla conquista dell'America; ha praticato la tratta degli schiavi e la schiavitù; ha compiuto le dominazioni più lunghe e dure della storia. Eppure in quella stessa Europa, e forse già dalla conquista, menti illuminate svilupparono alcune delle idee chiave che permettono il dialogo: fu Bartolomeo de Las Casas, prete spagnolo, a dire che gli indigeni americani erano esseri umani come tutti gli altri, e fu Montaigne a scrivere ‘ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa’. Continuò Montesquieu che nel suo romanzo epistolare ‘Lettere persiane’ immagina che dei viaggiatori persiani arrivino in Francia e la esaminano come farebbe un antropologo. In altre parole, l'Europa occidentale è stata contemporaneamente la patria della dominazione e delle idee sull'emancipazione.

Qual è la differenza tra dialogo e negoziazione?

Negoziare significa contrattare per raggiungere un accordo. Mentre il dialogo autentico risiede nella comprensione dell'altro. Per capire l'altro, bisogna prima cercare di conoscerlo nella sua totalità, conoscere le sue credenze, i suoi costumi, i suoi riti, la sua civiltà - il che presuppone un'erudizione o una certa istruzione. Dobbiamo capire che l'Altro è un soggetto come noi, cioè un individuo autonomo che merita rispetto. A quel punto è indispensabile lo slancio soggettivo dell'interesse e della simpatia. Senza questo, non c'è comprensione. Oggi siamo in condizioni di isteria collettiva e manicheismo che impediscono la solidarietà e quindi la comprensione. Siamo in un periodo in cui la comprensione sta perdendo terreno. Come possiamo incoraggiare questo slancio verso la comprensione? Prendiamo l'esempio di Francia e Germania, che hanno combattuto per un secolo e mezzo. In Francia, si insegnava nelle scuole che i tedeschi erano bruti e in Germania che i francesi erano inutili. Dopo la seconda guerra mondiale, si è deciso che i libri di storia dovevano essere rivisti e che la visione socio-centrica doveva essere sostituita da un punto di vista più ampio. Ma d'altra parte, oggi in Europa occidentale, continuiamo ad oscurare alcune parti della storia quando studiamo questo continente. Dimentichiamo, per esempio, che l'Impero ottomano si è spinto fino all'Ungheria e all'ex-Jugoslavia e che ha avuto un ruolo civilizzatore per secoli. Bisogna avere una formazione storica per simpatizzare con l'Altro. Molte condizioni devono essere soddisfatte prima di impegnarsi nel dialogo, la prima è la comprensione reciproca.

Marco Sonsini

Editoriale

E poi dicono che whatsapp non serve a nulla. In questo caso invece ha avuto un ruolo fondamentale. Grazie proprio ad un messaggio su whatsapp della mia cara amica Andrea, che condivideva l’intervista pubblicata su Repubblica ‘Edgar Morin. La cultura è il destino comune’, mi è venuta un’idea. Anzi nel ringraziare Andrea per l’interessantissimo articolo, le scrissi ‘quasi quasi gli chiedo se è disponibile per un contributo a PRIMOPIANOSCALAc . Di quella intervista, che celebra i cento anni del grande filosofo francese, e nella quale Morin affronta ‘la grave crisi nella quale ci troviamo’ e indica nel ‘rafforzare la conoscenza’ la via da seguire per uscirne, mi colpì in modo particolare questa affermazione ‘Viviamo una crisi spaventosa del pensiero: persino e soprattutto coloro che sembrano i detentori della verità oggettiva, gli economisti che parlano di calcoli, non si rendono conto che i calcoli non sono sufficienti per comprendere tutti i problemi umani. Il calcolo è uno strumento ausiliario necessario, come le statistiche, i sondaggi e tutto il resto’. Cosa serve quindi per comprendere i problemi umani? ‘È a questo modo di pensare, che separa e disgiunge, che io oppongo la conoscenza complessa’- sostiene Morin. Il tema della complessità è uno degli argomenti di questo numero di PRIMOPIANOSCALAc, bisogna, secondo il filosofo, imparare a vedere la complessità e scendere a compromessi con essa. Una delle idee centrali del suo pensiero è che la separazione delle discipline consente il progresso di ciascuna di esse, ma limita la conoscenza a livello globale, che viene decontestualizzata. Come considerare il mondo nuovo che stiamo vivendo? Su quali concetti essenziali dobbiamo fondare la comprensione del futuro? Su quali basi teoriche possiamo appoggiarci per vincere le sfide quotidiane? Morin risponde a queste domande con i sette saperi fondamentali che l'educazione dovrebbe trattare in ogni società e in ogni cultura. A questi ha dedicato, nel 1999, un volume dal titolo ‘I sette saperi necessari all'educazione del futuro’. Il primo è proprio conoscere la conoscenza, che definisce ‘Le cecità della conoscenza: l’errore e l’illusione’, poi troviamo ‘I principi di una conoscenza pertinente’, cioè promuovere una conoscenza capace di cogliere i problemi globali e gli oggetti nei loro insiemi; il terzo sapere è ‘Insegnare la condizione umana’, cioè conoscere il carattere complesso della propria identità e dell’identità che si ha in comune con tutti gli altri umani; il quarto ‘Insegnare l’identità terrestre’: il destino del pianeta riguarda tutti gli uomini e quindi è importante indicare quanto l’educazione possa contribuire alla creazione di una cittadinanza terrestre; il quinto è di un’attualità assoluta, ancor più del precedente, ‘Affrontare le incertezze’. Morin scrive:“bisogna apprendere a navigare in un oceano di incertezze attraverso arcipelaghi di certezza”, cioè educare a predisporre la mente ad aspettarsi l’inatteso è fondamentale per affrontare i rischi che le incertezze comportano. Nel sesto sapere ‘Insegnare la comprensione’ arriva a sostenere che abbiamo talmente bisogno di reciproche comprensioni, da essere addirittura necessaria un’educazione all’incomprensione: solo così potremo mettere a fuoco le radici dei razzismi, delle xenofobie, delle forme di disprezzo e creare una base per l’educazione alla pace. Il settimo, e ultimo, sapere è ‘L’etica del genere umano’ nel quale Morin traccia un triangolo che indica il carattere ternario della condizione umana: l’essere contemporaneamente un individuo, un soggetto che fa parte di una specie ed è ad essa strettamente collegato, un agente che organizza la società. Chiama questa consapevolezza antropo-etica e la lezione da apprendere è come restare in equilibrio dinamico tra queste tre sfere, individuo, specie e società, tutte altrettanto importanti. Un contributo profondo e non semplice al pensiero contemporaneo quello di Morin, tanto da farlo definire un ‘filosofo integrale’. Grazie Andrea!
Anno Nuovo, Copertina Nuova: inizia, con questo numero di gennaio 2022, la nuova serie grafica delle copertine di PRIMOPIANOSCALAc. Dal sapore pop e quasi oniriche, ritraggono il volto dell’intervistato che porta, a mo’ di copricapo, tutti gli elementi distintivi della sua opera, ruolo, vita… Con la tecnica del collage, vengono mescolate illustrazioni, fotografie, immagini 3D che riguardano il personaggio del mese (lavoro, passioni ecc.), la sua terra/città condite da immagini senza legami concettuali, ma utili alla composizione grafica. Come nel collage, le figure sono giustapposte le une alle altre, senza elaborazioni.

Mariella Palazzolo

Edgar Morin

Edgar Morin è sociologo, filosofo e saggista francese. Fino al 1989 è stato Direttore del Centre de communication de masse del Centre national de la recherche scientifique di Parigi, ed oggi ne è il Direttore emerito. È anche Co-Direttore del Centre d’études transdisciplinaires di Parigi.
Fin dall’inizio della sua carriera accademica, nel 1968 presso l’Università di Nanterre, dedica i suoi studi alla riforma del pensiero, una nuova conoscenza che superi la separazione dei saperi e che sia capace di educare ad un pensiero della complessità.
È autore di numerosi libri, molti dei quali tradotti in lingua italiana: La via, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Il cinema o l'uomo immaginario, La testa ben fatta, Il paradigma perduto. La sua ultima fatica letteraria è Lezioni da un secolo di vita, volume nel quale condensa in una serie di brevi aforismi-memento l’eredità del suo pensiero complesso. Studioso di cinematografia, aderisce al surrealismo, e alla settima arte dedica Sul cinema. Un'arte della complessità. Dal 1954 al 1962 è direttore della rivista Arguments, ispirata alla rivista letteraria italiana Argomenti. Nel 1961, co-dirige il film Chronique d'un été.
Nel corso della sua carriera è stato insignito di alcune importanti onorificenze, tra le quali quella di Commendatore dell'Ordre des Arts et des Lettres in Francia e Ufficiale dell’Orden del Mérito Civil in Spagna. Ha inoltre ricevuto numerose Lauree honoris causa, dall’Università di Perugia, di Valencia, di Salonicco ed altre ancora.
Entra nella Resistenza e partecipa alla liberazione di Parigi nell'agosto del 1944. L’anno successivo, a Landau, è Capo dell'ufficio propaganda del governo militare francese. Dal 1942 al 1951 è stato un esponente del Partito Comunista francese dal quale viene espulso per avere denunciato gli orrori di Stalin.
È nato (a Parigi), ma all’anagrafe il suo cognome è Nahoum, suo padre era un commerciante ebreo sefardita di Salonicco con origini livornesi. L’8 luglio 2021 ha festeggiato cento anni. Oltre che essere un cultore del cinema, Morin ha coltivato la passione dell’aviazione e quella del ciclismo.
Si è definito un otti-pessimista: “L’ottimismo ci acceca sui pericoli; il pessimismo ci paralizza e contribuisce al peggio. Bisogna pensare oltre l’ottimismo e il pessimismo”.

Marco Sonsini