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Telosaes.it

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Aprile 2017, Anno IX, n. 4

Tom Slee

Sharing Economy. Il rovescio della medaglia

“La Sharing Economy è perfetta per le piccole comunità (…) ma cercare di far diventare queste iniziative delle multinazionali vuol dire cercar guai.”

Telos: Lei è uno dei primi critici della “Sharing Economy”. Cosa ha fatto nascere questo interesse?

Tom Slee: Ho una sfiducia di vecchia data nelle persone che dicono di costruire reti tra persone, decentralizzate, orientate alla comunità, e che poi inevitabilmente si rivelano imprese globali che rendono milionari i loro fondatori. Lo abbiamo già visto con il primo periodo dell’innovazione tramite Internet, soprattutto legati al concetto di apertura: Google sostiene di ruotare intorno all’apertura, eccetto che per la pubblicità e gli algoritmi di ricerca che producono reddito, Facebook è anche per l’apertura dalla parte degli utenti, ma non sul suo algoritmo newsfeed (ndr sezione notizie), e così via. Quindi quando la sharing economy ha fatto capolino, con affascinanti discorsi sul ‘dare potere’ agli individui e sul creare reti basate sulla fiducia, e invece poi finanziate da capitali di rischio che cercavano un ritorno sui loro investimenti, è cominciato a nascere il dubbio che la sharing economy e i valori che diceva di promuovere fossero incompatibili. E così è accaduto. La sharing economy è perfetta per le piccole comunità (condivisione degli strumenti di lavoro) e funziona bene come tutte le iniziative di buon vicinato. Ci possono essere dei problemi, ma i vantaggi sono indiscussi. Ma cercare di far diventare queste iniziative delle multinazionali vuol dire cercar guai. Sono queste grandi aziende, e in particolare giganti come Uber e Airbnb, a causare la maggior parte dei problemi.

Nel suo libro "What’s Yours Is Mine: Against the Sharing Economy" lei mette in dubbio i benefici della sharing economy per le persone, tanto da battezzarli ‘pericoli imprevisti’. Quali pericoli?

Non intendevo pericoli per le persone che condividono (anche se un pizzico c’è pure nell’attività - danni alle case, cancellazioni dell’ultimo minuto, ospiti che non vogliono andar via, pessimi autisti, aggressioni), ma pericoli per il tipo di società che stanno creando. Promettono un modo di condivisione tra persone, mentre stanno semplicemente estendendo la più dura e non regolata economia del libero mercato a parti della nostra vita che prima erano protette. Ad esempio, sia Uber che Airbnb hanno dovuto affrontare accuse di discriminazione: autisti e ospiti neri hanno avuto problemi ad essere trattati con equità. Per le aziende di taxi o per gli hotel ci sono leggi alle quali devono rispondere, mentre Uber e Airbnb sostengono di non avere alcuna responsabilità, e di non dover rispondere, nei casi di discriminazione. Lo stesso vale per il tema assicurativo e la sicurezza. Le aziende tecnologiche ci vogliono far credere di essere a posto su questi argomenti, ma non è così. Sfortunatamente, assicurazioni e sicurezza sono cose noiosissime finché non si incappa in un incidente, e da consumatori tendiamo a dare per scontato che tutto è a posto. Con la sharing economy siamo spesso in errore. Ormai ci confrontiamo con grandissime aziende (Uber vale tanto quanto una grande azienda automobilistica, e Airbnb tanto quando una grande catena alberghiera). È arrivato il momento che si facciano carico dei costi delle loro attività.

Regolare la sharing economy è, a suo avviso, necessario. Che sia vero o meno è un tema ancora aperto nel dibattito pubblico. Cosa ne pensa?

Le amministrazioni locali in tutto il mondo hanno grandi problemi, ma sono il cuore delle istituzioni democratiche. Da cittadini possiamo dire la nostra su come le nostre città vengono amministrate, e questo si tramuta in un sottile bilanciamento degli interessi delle aziende, dei cittadini, dei visitatori e dei lavoratori. Maggiore è il successo delle grandi aziende della sharing economy, maggiore è il loro impatto negativo sulle città nelle quali operano. Le tasse sono un esempio: sia Uber che Aibnb hanno sedi in Paesi a bassa fiscalità e fanno convergere lì tutti i profitti, e quindi non pagano le tasse sui profitti fatti in Italia o in qualsiasi altra nazione fuori dagli USA. Airbnb ha più di 25mila alloggi su Roma, e il numero continua a crescere, ma i giochetti per evitare le tasse fanno ricadere tutti i costi associati al turismo sulle città. Per me il vero tema non è la regolazione, ma quello dell’accountability (ndr responsabilità e rendere conto delle proprie azioni). Le aziende devono essere responsabili e dare conto degli effetti della loro attività. La regolamentazione è solo un modo per obbligarle ad esserne responsabili e renderne conto. L’accountability è la chiave. Inizialmente si è molto discusso di come dei sistemi di rating potessero creare una sorta di regolamentazione algoritmica (ndr classificazione dei servizi fornita dai giudizi degli utenti). Ma ci siamo accorti che non funzionano: possiamo paragonarli ad un capo dal cattivo carattere: cerchi di comportarti al meglio per non essere il bersaglio di azioni disciplinari a casaccio (o cattive recensioni, a casaccio). Quindi oggi un autista Uber può essere privato della propria fonte di reddito se alcuni passeggeri sono di cattivo umore. Allo stesso tempo Uber vuole farci credere che i suoi autisti non sono degli impiegati, e questa affermazione mi preoccupa non poco. Inoltre, a prescindere da quanto si parli di Uber come l’inevitabile futuro della mobilità, l’azienda è in perdita: sembra che sia in perdita di 3 miliardi di dollari su un fatturato di 3 miliardi nel 2016. In fin dei conti quello che ci troviamo davanti è un consorzio di investitori molto ricchi, pronti a pagare milioni di dollari nel tentativo di eliminare alcune protezioni per i consumatori e per i lavoratori in modo da arricchirsi ancora di più. Non è uno spettacolo edificante.

Un suo punto di vista molto interessante è che ‘le aziende di sharing economy hanno avuto un tale successo nell’ingaggiare i propri clienti nella lotta contro la regolamentazione che hanno di fatto esternalizzato la loro attività di lobbying, tanto quanto le loro attività. Se affitti roba altrui puoi tranquillamente chiedere loro di scrivere lettere alle Istituzioni al posto tuo’. Ci spiega meglio cosa intende?

Mi spiace di essere costretto a tornare su Airbnb e su Uber, ma sono le più grandi e influenti società della sharing economy e stanno creando un modello che tutti cercano di seguire. Alcuni anni addietro Airbnb ha formato un gruppo chiamato ‘Peers’, che descriveva come un gruppo di grassroot (ndt movimento popolare) a sostegno della sharing economy. Poi è stato chiuso e l’autunno scorso hanno costituito i ‘club dell’homesharing’ che sono gruppi di advocacy formati dagli host (ndr i proprietari delle case) di Airbnb. Attraverso la propria app, Uber può individuare utenti in alcune città a propria scelta e invitarli a mandare un messaggio al legislatore, semplicemente pigiando un bottone. Entrambe le aziende hanno avuto dei risultati tangibili da questa attività: Uber a New York e Airbnb a San Francisco. Uber, ad esempio, interviene e paga le multe che i suoi autisti prendono nelle città dove il servizio non è autorizzato. L’idea di un’azienda americana che paga affinché le persone infrangano delle leggi democratiche riflette una ‘brutta arroganza americana’ che deve finire. Ma l’attività di lobbying condotta dai clienti è solo un aspetto dell’impegno aziendale. È corroborato da grandi investimenti nell’attività di lobbying professionale, e con investimenti milionari esercitano un’enorme pressione nelle città dove intendono aprire un mercato. Ma ultimamente alcune città non hanno reagito positivamente: Berlino e Barcellona, New York e San Francisco hanno messo dei limiti alle attività di Airbnb. Austin e Montreal e molte città europee hanno detto a Uber di andar via. È il segno di una forte azione democratica contro un movimento ideologico che minaccia decenni di progressi nei diritti dei lavoratori e nell’amministrazione delle città.

Marco Sonsini

Editoriale

Ma come tradurreste sharing economy? Economia della condivisione sembra essere l’espressione più corretta. Eppure non riesce a dare il senso completo di cosa sia questo fenomeno economico. La parola condivisione è una di quelle più abusate dalla retorica dei nostri tempi. Riuso, riutilizzo, condivisione: su questi concetti si basano molte realtà imprenditoriali nate negli ultimissimi anni. Il punto di partenza è sempre una piattaforma tecnologica all’interno della quale semplici cittadini offrono servizi o la condivisione di un loro bene. Uno studio di PriceWaterhouse Coopers del 2016 dal titolo Shared benefits. How the sharing economy is reshaping business across Euro, nel fotografare la crescita esponenziale del giro di affari legato a questa economia in Europa (+80% di fatturato dal 2013 al 2014, e +97% dal 2014 al 2015), ipotizza un valore, in volumi di transito, di 570 milardi di euro entro il 2025. Sono pochissime le voci critiche, se non quelle arrabbiate e a volte irragionevoli, dei portatori di interesse delle economie tradizionali. Ma proprio perché Primo Piano Scala c vuole essere un luogo nel quale tutti i punti di vista hanno diritto di cittadinanza, nel quale si rifugge dal pensiero unico, abbiamo intervistato Tom Slee, autore di un saggio critico dal titolo icastico "What’s Yours Is Mine: Against the Sharing Economy", purtroppo non tradotto in italiano, ma che ci permettiamo di rendere così Quello che è tuo è mio: contro la sharing economy. Slee affronta la tematica con un’opera di critica ideologica minuziosamente radicata nei fatti, anzi nei dati. Slee tiene a chiarire che le sue argomentazioni non sono legate alla bontà di scegliere o meno questo tipo di servizi, ma vogliono contrastare l’idea che la scelta dei consumatori sia onnipotente. C’è molto altro in ballo. Da lobbisti professionisti ci ha molto colpito l’attacco che Slee sferra all’attività di lobbying delle più importanti aziende della sharing economy. Ci è sembrato ingiusto. Crediamo infatti che ognuno abbia il diritto di rappresentare il proprio punto di vista, nella difesa del proprio interesse legittimo, nei confronti delle Istituzioni. E poi sta a loro decidere. Ma, a ben pensarci, un elemento importante per il ragionamento è stata proprio la parola legittimo. Dalla lettura dell’intervista di Slee, e ancor di più dalla lettura del suo libro portiamo a casa almeno una certezza: la sharing economy pone una serie di interrogativi. Mentre i benefici per gli utenti sono evidenti, molto poco ancora si sa sull’impatto che avrà sulla crescita e nel lungo termine sul mercato del lavoro; e soprattutto non è stata ancora completamente analizzata dal punto di vista delle norme legali e comportamentali da applicare. Questo è un territorio inesplorato. E le difficoltà avute dal Governo italiano nel gestire, dal punto di vista regolatorio, lo scontro tassisti/Uber, o la criticata norma appena inserita nella manovrina di primavera che introduce un regime fiscale ad hoc per le locazioni brevi (leggi Airbnb) ne sono una prova.

Tom Slee

Tom Slee scrive di tecnologia e società. Come ama raccontare, molto tempo addietro, ha conseguito un dottorato di ricerca in chimica teorica (teoria degli atomi nelle molecole) alla McMaster University, in Canada. Poi ha continuato la sua ricerca post dottorato triennale prima all’Università di Oxford, dove si è occupato di teoria della chimica inorganica e poi, tornato in Canada, all’Università di Waterloo, ha studiato le forze intermolecolari. Da allora ha lavorato, senza soluzione di continuità, nell’industria del software. Ci tiene molto a chiarire che i suoi scritti sono del tutto indipendenti dal suo datore di lavoro. Nel suo primo libro, del 2006, No One Makes You Shop at Wal-Mart, conduce un riesame critico, secondo un’ottica di sinistra, del paradigma della scelta individuale, utilizzando l’approccio della teoria dei giochi. Il suo saggio del 2015, What’s Yours is Mine: Against the Sharing Economy è stato pubblicato, negli USA e in Gran Bretagna, da OR Books, da Verlag Antje Kunstmann in Germania, e da Between the Lines Press in Canada. Le sue analisi di dati e i suoi commenti sono largamente citati in tutti i dibattiti sulla sharing economy. Slee vive con la moglie Lynne Supeene a Waterloo, in Ontario, e ha due figli già adulti: James Supeene e Simon Slee. Per leggere tutto quello che è stato scritto sul suo lavoro, e solo nel 2016, basta cliccare qui.

Marco Sonsini