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Ottobre 2021, Anno XIII, n. 10

Piero Ignazi

Politologo o Scienziato Politico?

"I primi si interessano amatorialmente ai fenomeni politici e i secondi li studiano con metodo scientifico, cioè fondando le loro analisi e le loro ipotesi sulla base di dati empirici verificabili. Tuttavia oggi insistere su questa distinzione nel dibattito pubblico è un po’ capzioso."

Telos: Lei viene spesso definito politologo, professione che, a differenza di quella di accademico non è proprio chiara ai più. Ma il politologo cosa fa?

Piero Ignazi: Il temine politologo è entrato nel lessico giornalistico da qualche lustro e questo crea un po’ di confusione. Vengono definiti politologi tutto coloro che scrivono di politica, sia essi storici, filosofi e quant’altro, trascurando il fatto che esiste una branca di studi che va sotto il nome di 'scienza politica'. Una disciplina che pur avendo avuto in Italia rappresentanti illustri ai suoi albori, all’inizio del Novecento, pensiamo a Gaetano Mosca e Wilfredo Pareto, nonché a Robert Michels, il primo ad analizzare i partiti politici con un’ottica empirica, ha dovuto poi faticare molto per essere riconosciuta, nel dopoguerra, come una disciplina autonoma, diversa dalla sociologia, dalla filosofia e dal diritto pubblico. Le ragioni sono molte, dalla ostilità alle scienze empiriche da gran parte della cultura italiana -a incominciare dall’idealismo di Benedetto Croce- all’uso strumentale che ne fece il fascismo quando inaugurò a Perugia la “Facoltà fascista di Scienze Politiche”. Fu Giovanni Sartori ad introdurre la moderna Scienza Politica, secondo i canoni disciplinari ormai universalmente accettati nelle Università italiane, quando ottenne il primo incarico come professore di Scienza Politica nel 1959 e la prima cattedra nel 1966. Da allora la Scienza Politica si è affermata nel panorama accademico e ha ottenuto uno spazio di rilievo a livello internazionale con alcuni suoi rappresentanti della generazione successiva a Sartori, quella dei baby-boomer. Questa premessa era necessaria per precisare la differenza tra ‘politologi’ e ‘scienziati politici’. I primi si interessano amatorialmente ai fenomeni politici e i secondi li studiano con metodo scientifico, cioè fondando le loro analisi e le loro ipotesi sulla base di dati empirici verificabili. Tuttavia, oggi insistere su questa distinzione nel dibattito pubblico è un po’ capzioso. E quindi anche chi come me, ha un curriculum da scienziato politico, viene definito politologo come altri (bravissimi) colleghi che però hanno una formazione del tutto diversa, storica, filosofica, giuridica o sociologica.

Nel Duemila, pur discettando sul fatto che la morte delle ideologie avesse allontanato le nuove generazioni dalla militanza politica, si parlava in termini positivi di partiti post-ideologici, leggeri e liquidi. Oggi l’impressione è che un numero sempre crescente di cittadini fatichi persino a comprendere quali siano il senso e l’utilità della politica. A Suo modo di vedere, la politica ha un futuro? Ed è realistico pensare alla rinascita di partiti solidi, strutturati e radicati nella società e nei territori?

I partiti politici sono oggi molto diversi da quelli cui siamo abituati a riferirci, e cioè ai partiti di massa novecenteschi. Le condizioni che avevano permesso la nascita e lo sviluppo completo di quel tipo di partito si sono esaurite già dagli anni ‘80. In quegli anni, la trasformazione della società da industriale in post-industriale, la secolarizzazione, la diffusione dei consumi e dei nuovi media, l’emergere di priorità legate alla qualità della vita e all'autorealizzazione personale, hanno portato ad una trasformazione sia delle dinamiche interne ai partiti sia del loro rapporto con la società. In estrema sintesi, i partiti si andavano caratterizzando da una maggiore autonomia della leadership, da un riferimento sempre più lasco ad una ideologia o ad un settore particolare della società (classe operaia o mondo confessionale), dall’apertura ad una moltitudine di gruppi di interessi, e dal sempre minore rilievo della base degli iscritti. Questi cambiamenti si sono accelerati nei decenni successivi. Inoltre, la proliferazione e l’invasività dei media prima e ora di Internet una ristrutturazione economica sotto il segno del neoliberismo e della parcellizzazione del lavoro e in definitiva una liquidità dei rapporti sociali (più occasionali e labili, non più legati a strutture associative solide) ha messo alle corde l’attività del partito politico così come era stata concepita ai suoi albori. Mentre allora era uno strumento di partecipazione, mobilitazione e socializzazione/educazione politica, un luogo in cui i partecipanti si ‘riconoscessero tra eguali’, accomunati dagli stessi valori, legati da rapporti di ‘comunanza politica’, ora è diventato soprattutto un luogo di selezione degli aspiranti ad una carica pubblica. La discussione, l’elaborazione comune e collettiva delle scelte politiche hanno perso vigore a favore di una concentrazione dell’impegno sul momento elettivo. Il partito ha perso quella caratteristica di essere un luogo di incontro dove si interagisce con altri, condividendo valori e agendo per obiettivi comuni. Viene considerato piuttosto un trampolino di lancio per carriere. E questo lo sta facendo allontanare dal sentiment dell’opinione pubblica.

Quali prospettive per i partiti del socialismo europeo, ora che al tramonto della stagione blairiana pare non aver fatto seguito il ritorno a programmi e linguaggi ancorati alla socialdemocrazia (piena occupazione, stato sociale)?

I partiti socialisti sono ad un tornante storico e, per essere tranchant, rischiano una marginalizzazione fatale come i loro storici antagonisti, liberali e democratici-cristiani. La ragione in fondo è semplice. Hanno perso la loro mission che era quella di difendere le componenti sottoprivilegiate della società. I partiti socialisti rappresentavano le classi popolari e andavano allo scontro con i rappresentati delle classi agiate. C’era un evidente conflitto di interessi. Tutto questo, in parte non c’è più perché, come detto prima, la società non è quella industriale di un tempo con classi ben definite, e in parte perché la trasformazione di fine secolo dell’economia (e della società) ha favorito le classi agiate. La lotta di classe è finita, e i lavoratori l’hanno persa. Fino ai primi anni di questo secolo hanno retto perché hanno compensato la perdita di consensi popolari con il sostegno delle nuove classi medie, istruite e urbanizzate che si sono avvicinate ai socialisti non sulla base di interessi ma condividendo molti valori ‘umanisti’ propri anche di un’antica tradizione socialista. Ma negli ultimi anni la fuga degli elettori sottoprivilegiati è diventata massiccia ed ha alimentato le forze populiste. Riuscire a recuperare queste componenti senza perdere i nuovi arrivi neo-borghesi è una sfida molto ardua per i socialisti.

Un tema che, a nostro avviso, è stato affrontato in modo demagogico è quello del finanziamento pubblico ai partiti. Qual è il Suo pensiero a riguardo?

In Italia il finanziamento pubblico ai partiti è stato uno dei più generosi e dei meno controllati del mondo. Poi, dopo un’ulteriore ondata di scandali, all’inizio del 2010, la pressione dell’opinione pubblica è stata tale che si è arrivati all’eliminazione di ogni contributo statale diretto ai partiti. E adesso siamo i soli in Europa, insieme alla Svizzera, a non avere un finanziamento pubblico ai partiti. La demagogia anti-partitica ha travolto ogni razionalità e invece di stabilire norme efficaci per il contrasto della corruzione e della malversazione di fondi pubblici e una riduzione ragionevole della cornucopia di denari versati negli ultimi anni, è stato tagliato ogni sostegno. Sarebbe tempo di reintrodurre norme per il finanziamento pubblico in linea con le democrazie europee.

Marco Sonsini

Editoriale

La lotta di classe è finita”. Questa frase l’abbiamo letta ed ascoltata nei monologhi televisivi o negli editoriali di tanti politologi. Ma Piero Ignazi è uno scienziato politico ed aggiunge un corollario spesso negletto: “e i lavoratori l’hanno persa”. Precisazione necessaria, perché rovescia il senso della premessa: la lotta di classe non è semplicemente finita perché, nel passaggio dalla società industriale a quella post-industriale, sono venute meno le condizioni per la riproduzione del conflitto tra le classi, ma perché la deindustrializzazione dell’Occidente ha comportato la sconfitta di uno dei due contendenti. Un esito dalla portata epocale, che ha messo a repentaglio non soltanto le storiche conquiste sociali e salariali dei lavoratori europei, ma la loro stessa sopravvivenza in quanto lavoratori salariati, semplicemente perché l’officina del mondo è altrove ed in Europa o il lavoro non c’è, o di lavoro (cioè di salario) non si vive.
Se guardiamo all’ultimo quarantennio, difficilmente possiamo negare che fine della lotta di classe e crisi dei partiti politici siano due facce di uno stesso processo di disfacimento, del quale i partiti del socialismo europeo ci appaiono come le principali vittime – proprio quelli che per primi, agli albori del Novecento, avevano opposto alle consorterie dei loro avversari il partito politico nel senso moderno del termine, con il suo apparato, la coesione ideologica, il collateralismo con il movimento operaio. E tuttavia, siamo anche costretti a constatare che l’abbandono, da parte dei partiti socialisti, della funzione di tutela delle classi lavoratrici è parte integrante di qualsiasi spiegazione non consolatoria che voglia dar conto della sconfitta storica degli uni e delle altre.
Ai cambi fissi e alla libera circolazione dei capitali, dogma economico sul quale riposa l’integrazione europea, il socialista Mitterand sacrificò nei primi anni Ottanta il programma avanzato che l’aveva portato all’Eliseo ed abbracciò l’austerità – lasciando spazio al dilagare del malcontento e alla prima grande affermazione del Fronte Nazionale. Devoto all’imperativo della competitività, nei primi anni Duemila il socialdemocratico Schröder abbracciò la deflazione salariale, dando copertura legale al lavoro sottoretribuito con i famosi mini Jobs e consegnando all’irrilevanza l’SPD, che oggi gioisce per un risicatissimo 25%. Nel frattempo, dilaniato dai contrasti interni su politica dei redditi, rapporto con il sindacato e adesione al mercato unico, indebolito dalla scissione della componente moderata ed europeista, il laburismo britannico non resisteva all’egemonia neoliberale ed infine ne abbracciava, con Blair, l’agenda, per poi ritrovarsi senza argomenti e senza rimedi di fronte alla crisi del modello del quale aveva accettato l’ineluttabilità.
Ma davvero non c’era alternativa? Di certo, aver accettato un ordine economico internazionale fondato sulla circolazione dei capitali e (quindi) sulla competizione fiscale e salariale al ribasso, ha significato per i socialisti assumersi il compito di fare il lavoro sporco, magari con qualche concessione corporativa ai lavoratori più anziani, sperando di poterne contenere il costo in termini elettorali. Così non è stato e la Sinistra europea è ad un passo dall’annientamento.
Ignazi osserva che l’apporto del ceto medio riflessivo, laico e progressista, non basta più ad arginare l’emorragia di voti popolari. Aggiungeremmo che, dato questo stato di cose, le Sinistre europee si trovano oggi ad un bivio: recuperare il senso ed i contenuti di antiche battaglie per la dignità del lavoro o seguire i Democratici americani nell’avventura della identity politics, diventando cioè il partito degli immigrati naturalizzati, assumendosi la responsabilità di importare sul suolo europeo il modello americano di creazione del consenso fondato sull’opposizione nativi vs. nuovi arrivati. Nel qual caso, l’esito sarebbe la liquidazione definitiva della democrazia come l’abbiamo conosciuta e conquistata nel Novecento.
Anche la copertina di ottobre di PRIMOPIANOSCALAc è una pagina bianca strappata dalla quale si intravede uno stralcio dell'intervista in italiano e inglese, popolata da un insetto che guarda verso il testo. Ad Ignazi abbiamo dedicato la Mantide Religiosa, chiamata così dal greco antico μάντις, cioè profeta, indovino. Il nome fa riferimento alla singolare conformazione delle sue zampe anteriori che evocano una persona in preghiera, e per questo motivo viene vista come portatrice di pace interiore profonda, nonché simbolo delle pratiche di meditazione. È l'unico insetto capace di vedere il mondo in 3D e ha una visione stereoscopica specializzata nel captare gli oggetti in movimento: Jean-Henri Fabre, padre dell’entomologia, sosteneva che gli altri insetti possono solo vedere, la mantide invece può osservare!

Mariella Palazzolo

Piero Ignazi

Piero Ignazi è Professore di Politica comparata presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Bologna, e Professore associato dell’Institut d'études politiques de Paris (meglio conosciuto come Sciences Po).
Dal 2006 al 2014 è stato Presidente della Commissione di ricerca per la Sociologia politica dell’International Political Science Association (IPSA). Negli anni tra il 2000 e il 2014 è stato membro del Comitato scientifico della Rivista Italiana di Scienza Politica e dell’International Political Science Review.
Dal 2009 al 2012 è stato direttore della Rivista di cultura e di politica Il Mulino.
Editorialista de L’Espresso dal 2007 al 2017, Il Sole24Ore dal 1993 al 2012 e La Repubblica dal 2012 al 2020, lo è, dal 2020, per la rivista Domani.
La sua attività di ricerca è stata incentrata sullo studio dei partiti politici nell’Europa Occidentale, ed è autore e co-autore di numerose pubblicazioni, tra le quali le più recenti sono: Extreme Right Parties in Western Europe (2006), Italian Military Operations Abroad. Just Don't Call It War (2012), I Partiti Italiani dal 1945 al 2018 (2018), Party and Democracy. The uneven road to party legitimacy (2021).
Quando gli abbiamo chiesto un accenno a qualcosa di personale, ad una cosa che ama, un hobby, ha risposto così: ‘la cosa che amo di più è la convivialità, ma non si presta come la collezione di francobolli...’.
È nato a Faenza, in provincia di Ravenna, ed ha 70 anni.

Marco Sonsini