
L’ILLUSIONE DI SCEGLIERE
“Non serve essere il candidato più popolare per vincere le elezioni. Basta saper trasformare il potere in voti.”
Telos: Lei ha dimostrato come i detentori del potere possano conservarlo anche quando la loro popolarità si erode. Quali sono le strategie contemporanee più sofisticate attraverso le quali i leader trasformano le risorse statali, le reti clientelari e il controllo delle istituzioni in vittorie elettorali?
Nic Cheeseman: Una delle grandi lezioni del mio libro How to Rig an Election [ndt Come truccare un'elezione] è che non occorre essere il candidato più popolare per vincere un’elezione, occorre piuttosto saper tradurre il potere in voti. I governanti più abili adottano ciò che definisco strategie di dominio integrato, fondendo il controllo delle risorse statali, le reti clientelari e le istituzioni governative in una macchina elettorale perfettamente coordinata. Nei Paesi dove le tutele democratiche sono deboli, questo processo può iniziare molto prima del giorno del voto, attraverso la distribuzione strategica di incarichi e appalti, che finisce per creare qualcosa che somiglia meno a un partito politico e più a un cartello clientelare. In prossimità delle elezioni, le stesse reti vengono mobilitate per finanziare le campagne, portare sostenitori ai comizi e “incoraggiare” funzionari pubblici, leader tradizionali e élite economiche ad allinearsi. Allo stesso tempo, i governanti in Paesi come la Bielorussia o l’Uganda catturano o neutralizzano in modo selettivo le istituzioni che dovrebbero fungere da arbitri imparziali, dalle commissioni elettorali ai tribunali, dalle agenzie di sicurezza fino agli organismi statali di controllo contabile. L’obiettivo non è sempre la manipolazione più grossolana, ma piuttosto orientare a proprio vantaggio ogni decisione cruciale: dove collocare i seggi elettorali, come organizzare la registrazione degli elettori, come dirimere i ricorsi sulle elezioni. Ciò che dall’esterno può apparire come una competizione serrata e combattuta è spesso il prodotto di anni di silenzioso aggiustamento delle regole, nel quale denaro pubblico, personale e potere sono stati sistematicamente dirottati allo scopo di mantenere una determinata fazione al governo. Una tendenza recente e preoccupante è che alcuni governanti non fingono neppure più di essere democratici. Le recenti elezioni in Tanzania hanno mostrato come forme di manipolazione sempre più sfacciate, tra cui intimidazioni, esclusione dei candidati dell’opposizione e blocchi di internet, vengano ormai condotte alla luce del sole. Invece di temere la condanna internazionale, molti leader si sentono incoraggiati dai cambiamenti globali degli ultimi anni. L’ascesa di potenze più autoritarie, insieme ai segnali sempre più incerti provenienti dai tradizionali sostenitori della democrazia, compresa la recente dichiarazione degli Stati Uniti secondo cui non commenteranno più le elezioni straniere, hanno reso meno rischioso ricorrere ai brogli. In un clima internazionale più permissivo, l’attacco alla democrazia è uscito allo scoperto.
ll Suo lavoro mette in evidenza non solo l’importanza della disinformazione, ma anche quella delle narrazioni orchestrate dallo Stato. Quali forme di manipolazione del dibattito pubblico si stanno rivelando più efficaci oggi e in quale modo differiscono dalle tecniche classiche di manipolazione del voto?
La manipolazione elettorale tradizionale riguarda soprattutto i numeri: riempire urne, falsificare i conteggi, comprare voti. La manipolazione del dibattito pubblico riguarda invece il significato, cioè plasmare ciò che le persone ritengono vero e ciò che considerano possibile. Le strategie più efficaci fondono le narrazioni orchestrate dallo Stato con la disinformazione mirata diffusa online. I governi continuano ad appoggiarsi ai broadcaster pubblici e ai media privati loro favorevoli, ma oggi affiancano tutto questo a eserciti di influencer, bot e “guerrieri della tastiera” su WhatsApp, Facebook e TikTok, incaricati di diffondere racconti emotivamente coinvolgenti, mezze verità e teorie del complotto. La differenza fondamentale rispetto ai brogli tradizionali è che l’obiettivo non è tanto orientare ciò che gli elettori pensano, quanto influire su chi alla fine andrà a votare. La manipolazione del dibattito pubblico viene utilizzata per ridurre l’affluenza tra i sostenitori dell’opposizione, screditare giornalisti e attivisti critici, polarizzare le comunità lungo linee etniche o religiose e, sempre più spesso, mettere in discussione l’idea stessa di istituzioni imparziali. Invece di limitarsi a rubare il voto, i leader cercano di rubare la narrazione: convincere i cittadini che l’opposizione è pericolosa, che i critici sono marionette di potenze straniere o che tanto tutti imbrogliano. Nei casi peggiori vediamo emergere una nuova tecnica, attaccare la legittimità del risultato stesso, anche quando chi è al governo ha perso, così da giustificare il rifiuto di riconoscere la sconfitta. Uno dei problemi più gravi che questo genera è il crollo della fiducia nelle istituzioni democratiche, perché la fiducia è il collante che tiene insieme le democrazie. Un altro cambiamento rispetto a vent’anni fa è l’emergere di ecosistemi di disinformazione internazionale sempre più sofisticati. Oggi la disinformazione non è più soltanto interna, ma sempre più transnazionale, e coinvolge operazioni di influenza straniera coordinate. La Russia, la Cina e altri attori hanno investito in strategie di comunicazione mirate a sostenere governi a loro favorevoli, amplificare contenuti polarizzanti e minare la fiducia nelle istituzioni elettorali. Tutto ciò significa che le guerre dell’informazione non si combattono più soltanto all’interno dei singoli Paesi, ma anche oltre i confini, il che rende il controllo del dibattito pubblico importante quanto il controllo delle urne.
Lei ha sostenuto che alcune democrazie africane sono più resilienti di quanto molti osservatori esterni tendano a credere. Quali sono, a Suo avviso, le fonti di forza democratica più sottovalutate che stanno emergendo, che si tratti dei tribunali, della società civile o della politica a livello locale?
Se ci si limita ai titoli sui recenti colpi di stato in Paesi come il Burkina Faso o la Guinea Bissau, è facile lasciarsi sfuggire le forme più discrete della capacità di tenuta democratica in Africa. Una di queste è che molti cittadini restano profondamente legati alle elezioni e ai limiti di mandato: i sondaggi mostrano con costanza un forte sostegno pubblico alla competizione politica e una netta opposizione ai leader a vita, anche in Paesi dove il regime sta arretrando. Un’altra riguarda il modo nel quale alcune istituzioni statali, come tribunali, commissioni elettorali e governi locali, a volte reagiscono e resistono. Le corti costituzionali di Paesi come il Malawi e il Kenya hanno annullato consultazioni viziate, e gli organismi elettorali in Gambia e Zambia hanno proclamato la sconfitta del governo anche sotto pressioni enormi. La società civile è anche più innovativa di quanto le venga spesso riconosciuto. I movimenti giovanili, le organizzazioni femminili, le associazioni professionali e i gruppi religiosi hanno imparato a usare i social media, il contenzioso strategico e l’osservazione elettorale nel giorno del voto per aumentare il costo della manipolazione. In alcuni Paesi i partiti di opposizione sono diventati più abili nel costruire ampie coalizioni e nello schierare propri rappresentanti a tutela del voto. Nulla di tutto questo garantisce la sopravvivenza della democrazia, tutt’altro, ma significa che gli autocrati si confrontano con un contesto molto più impegnativo rispetto al passato. La storia della democrazia africana non è soltanto una storia di indebolimento democratico, è anche una storia di adattamento e di resistenza.
Lei ha scritto più volte su quello che alcuni definiscono “colpi di stato costituzionali”. Quali sono, a suo avviso, i modelli ricorrenti con i quali i leader reinterpretano, piegano o riscrivono le regole costituzionali per prolungare la loro permanenza in carica? E quali Paesi rappresentano oggi al meglio questa forma silenziosa di regressione democratica?
Non mi convince del tutto l’espressione “colpi di stato costituzionali”; a mio avviso il termine colpo di stato andrebbe riservato a situazioni che implicano l’uso della forza. Applicarlo a manovre legali offusca la chiarezza analitica, anche se alcune delle tendenze che stiamo osservando sono davvero preoccupanti. L’eliminazione dei limiti di mandato è uno degli aspetti più importanti di questo fenomeno, e i leader sono diventati molto più abili nel portarlo avanti. Invece di respingere apertamente la legge, la manipolano per apparire formalmente in regola, sostenendo che una nuova costituzione azzera il conteggio dei mandati, con l’approvazione di modifiche o attraverso referendum. Questo è particolarmente pericoloso, perché una volta aggirati i limiti costituzionali non si assiste più ad un declino lento e progressivo, ma la concentrazione del potere accelera e l’alternanza viene di fatto bloccata. In Paesi come il Burundi o l’Uganda, per esempio, l’abolizione dei limiti di mandato indebolisce le istituzioni e personalizza il potere, e spesso si accompagna a vincoli sempre più pesanti sul dissenso. Al contrario, la tutela dei limiti di mandato, come si è visto in Ghana o in Kenya, contribuisce a preservare la possibilità di rimuovere dal potere autocrati corrotti e mantiene viva la prospettiva di un rinnovamento politico.
Editoriale
‘Quando il Potere Riscrive le Regole’ è la frase che descrive perfettamente la nostra conversazione con Nic Cheeseman. La sua intervista nel numero di dicembre di PRIMOPIANOSCALAc si concentra sull’Africa, sui suoi governanti, sulle pressioni, sulle battaglie tra manipolazione e resistenza. Eppure, come spesso accade con le analisi politiche più limpide, le sue parole vanno ben oltre il contesto immediato e toccano da vicino anche noi. Anche l’Europa sta affrontando una forma più sottile di degrado democratico, una deriva che raramente attira l’attenzione dei media finché il danno non è ormai evidente. Il Prof. Cheeseman avverte che i leader più abili del nostro tempo non ricorrono alla forza. Cambiano le regole: piegano le costituzioni, mettono sotto controllo le istituzioni e ne alterano i processi decisionali in modi che appaiono legali mentre svuotano dall’interno la democrazia. Esita a chiamare queste tattiche “colpi di Stato costituzionali”, temendo di confondere il confine tra diritto e uso della forza, ma il disegno è inequivocabile. E l’Europa non ne è affatto immune. Quando descrive i governanti che trasformano le loro reti clientelari e risorse statali in macchine elettorali, potrebbe riferirsi agli sviluppi recenti in Ungheria e Polonia. In entrambi i casi, i governi hanno rimodellato la magistratura, i media pubblici e gli organismi di controllo nel nome della sovranità o del rinnovamento. Ciò che appare come riforma amministrativa è spesso un accurato lavoro di ingegneria della permanenza: nuove interpretazioni dei limiti di mandato, sistemi giudiziari riformati, luoghi chiave popolati da fedelissimi e autorità trasformate in strumenti politici. Le sue riflessioni sulla manipolazione del dibattito pubblico sono altrettanto pertinenti. Gli autocrati contemporanei non si limitano a distorcere il voto, distorcono la realtà. Inondano lo spazio pubblico di disinformazione, erodono la fiducia nelle istituzioni e convincono i cittadini che “tanto imbrogliano tutti”. Non aboliscono più i limiti di mandato, li reinterpretano, sostenendo che le revisioni costituzionali azzerino il conteggio e giustifichino nuovi cicli di potere. Anche l’Europa ha conosciuto questa logica. Dai referendum concepiti per concentrare l’autorità esecutiva alle pressioni sui tribunali supremi affinché reinterpretino i criteri di ammissibilità, l’obiettivo resta lo stesso: se il potere non può essere conquistato apertamente, può essere esteso tramite le leggi. Cheeseman ci ricorda però che esiste anche la resilienza. In tutta Europa, amministrazioni locali, corti costituzionali, giornalisti investigativi e movimenti civici hanno resistito ai tentativi di indebolire le norme democratiche. Questi nuclei di resistenza, talvolta silenziosi e spesso fragili, sono gli anticorpi democratici del continente. Eppure esiste un’altra faccia della medaglia, che le democrazie liberali preferiscono spesso non vedere: proprio l’espansione dei contropoteri potrebbe rappresentare, a sua volta, un fattore di compressione della democrazia, concentrando poteri e prerogative nelle mani di organi che non rappresentano la volontà del corpo elettorale. Anche i tribunali, ad esempio, possono diventare attori politici in senso opposto. La storia recente dell’Europa offre diversi esempi. In Spagna, la Corte Costituzionale ha sospeso iniziative governative per mesi, sollevando dubbi sulle motivazioni politiche di alcune decisioni cautelari, soprattutto riguardo alla Catalogna o alle riforme sociali. In Germania, il tribunale di Karlsruhe ha contestato politiche europee sostenute dal governo, generando ripercussioni molto oltre il perimetro delle questioni costituzionali. Nel Regno Unito, durante gli anni della Brexit, il contenzioso giudiziario ha bloccato più volte decisioni dell’esecutivo, con sentenze percepite da molti come incursioni nel terreno politico. In Francia, il Consiglio di Stato ha modificato misure governative su migrazione e sicurezza in modi che alcuni osservatori hanno definito politicamente orientati. La tendenza più inquietante non è la manipolazione in sé, ma la sua normalizzazione. Una volta che l’arretramento democratico diventa familiare, persino rispettabile, l’indignazione che un tempo proteggeva le istituzioni svanisce. Il rischio per l’Europa non è scivolare verso l’autocrazia, ma diventare abbastanza distratta da non accorgersi mentre le regole vengono riscritte sotto i suoi occhi. Le riflessioni di Cheeseman vanno lette in questo spirito: non come il ritratto di un continente lontano, ma come uno specchio rivolto verso di noi. Le democrazie raramente crollano con un fragore. Molto più spesso si dissolvono in silenzio, attraverso modifiche legislative, aggiustamenti amministrativi, cambiamenti regolatori. Così si trasforma l’eccezionale in routine.L’unico antidoto è la vigilanza: da parte dei cittadini, delle istituzioni e di tutti coloro che credono ancora che la democrazia non sia un reperto del passato, ma una responsabilità quotidiana. Rosso, nero e bianco, i colori storici di Telos Analisi e Strategie, li avete ritrovati nella grafica delle copertine del 2025 di PRIMOPIANOSCALAc. Chissà quale sarà lo stile grafico del 2026? Non ci resta che attendere. Intanto, con questo numero di dicembre, tutti noi di Telos Analisi e Strategie vi auguriamo Buon Natale ed un sereno 2026.
Mariella Palazzolo
Nic Cheeseman è Professore di Democrazia all’Università di Birmingham e Direttore del Centre for Elections, Democracy, Accountability and Representation (CEDAR). In precedenza è stato Direttore dell’African Studies Centre dell’Università di Oxford. Cheeseman ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, tra i quali il Joni Lovenduski Prize della Political Science Association del Regno Unito per risultati professionali eccezionali, e il premio dell’Economic and Social Research Council per il suo “straordinario impatto internazionale”. È inoltre autore o curatore di oltre dieci libri, tra cui How to Rig an Election (2018), selezionato dallo Spectator tra i libri dell’anno. Commentatore assiduo di temi riguardanti la democrazia, le elezioni e gli affari globali, le sue analisi sono apparse su The Economist, Le Monde, Financial Times, Newsweek, The Washington Post, The New York Times, BBC e The Africa Report. Molte delle sue interviste e riflessioni sono disponibili sul sito che ha fondato e co-dirige, www.democracyinafrica.org. Nic ama visitare nuovi paesi e scalare montagne, ed è uno storico te paziente tifoso, molto paziente, del Queens Park Rangers. Da non perdere il suo profilo su X: Nic Cheeseman @fromagehomme.