
Una voce fuori dal coro. Troppo grandi per fallire? NO.
“È un vero paradosso: i bail-out e gli incentivi premiano le imprese mal gestite e creano azzardo morale. Questo tipo di intervento governativo equivale a scegliere i vincitori e gli sconfitti dell’economia, un lavoro nel quale il governo fallisce regolarmente, e prepara il campo al capitalismo amicone, nel quale saranno le imprese ben introdotte e politicamente à la page a mietere successi nel mercato politico.”
Telos: Primo non far del male. Questo potrebbe essere il motto del Libertarismo responsabile. Come si potrebbero applicare, oggi, in modo ragionato i principi libertari nell’economia e nella finanza?
Jeffrey Miron: Secondo i principi del libertarismo il governo dovrebbe intervenire solo in presenza di due condizioni: 1) prove convincenti che il meccanismo privato stia per fallire malamente; 2) prove convincenti che i benefici dell’intervento siano maggiori dei costi e delle sue conseguenze (anche involontarie). Il libertario sa già quanto queste condizioni siano rare. Questo non vuol dire che pensi che tutto ciò che è privato funzioni perfettamente. I libertari sanno che esternalità, beni pubblici, comportamenti monopolisti, consumatori miopi, e altre situazioni lontane da una economia idealizzata esistono. Ma credono pure che questi problemi abbiano una dimensione modesta e poco frequente, mentre meccanismi privati spesso si sviluppano per aiutare a colmare le manchevolezze degli accordi privati. Ancor di più i libertari sanno quanto possano essere imperfetti gli accordi privati, ma ancor di più ritengono che, per quanto possano essere ben intenzionati i governi nell’intervenire, le loro politiche per aggiustare i problemi economici e sociali si riveleranno inefficaci nel raggiungere gli obiettivi che si prefiggevano, anzi, con grande probabilità porteranno effetti collaterali ancor più negativi. In poche parole: anche se il privato funziona male, gli interventi pubblici sono una cura peggiore della malattia.
Too big to fail (troppo grandi per fallire) è il titolo di un capitolo del suo ultimo libro Libertarianism from A to Z. Nel Settembre del 2008 lei definì il bail-out di 700 miliardi di dollari del governo statunitense a Wall Street una terribile idea. Perché?
Il bail-out (salvataggio) è stato una cattiva idea perché ha premiato l’eccessiva assunzione del rischio e quindi incoraggiato l’azzardo morale: ovvero la tendenza degli operatori finanziari a rischiare oltre i limiti, consapevoli che non ne pagheranno le spese, almeno non del tutto, se le cose andranno male.
È un vero paradosso: i bail-out premiano le imprese mal gestite e creano azzardo morale. Sovvertono la regola fondamentale del libero mercato, ovvero chi rompe paga. Regola che è complemento necessario della libertà. Né le nuove regolamentazioni danno grande speranza. Sembrano la contropartita dello statuto speciale concesso a quelle imprese finanziarie troppo grandi per fallire, pena rovinosi effetti sistemici. Se il governo non avesse salvato Wall Street, molto probabilmente altri istituti finanziari e banche, oltre a Lehman Brothers, sarebbero falliti. Questo risultato sarebbe stato, di per sé, una buona cosa: l’aspetto essenziale del capitalismo e del libero mercato è che le imprese non efficienti, incompetenti, insomma quelle cattive devo uscire dal mercato. I sostenitori del bail-out hanno dichiarato che le istituzioni finanziarie sono speciali e un fallimento diffuso avrebbe causato un credit crunch (stretta del credito) e le ricadute sul resto dell’economia sarebbero state drammatiche. Scenario possibile? Sì. Senza alcun dubbio i mercati finanziari sarebbero sprofondati nel caos se il Tesoro e la Federal Reserve (Fed) non fossero intervenuti. Ma qualunque sia stata la stabilità a breve ottenuta da questi interventi, i costi a lungo termine saranno enormi: anche i più importanti istituti finanziari daranno per scontato che le loro rischiose scommesse avranno la rete di sicurezza dei contribuenti. In termini più ampi, i salvataggi hanno creato un precedente per un sempre maggiore interventismo dei governi nei mercati: la vendita e l’acquisto di determinati titoli, come la Fed ha fatto con le cartolarizzazioni basate sui mutui; limiti alle retribuzioni e pressione sui mercati finanziari per dare sostegno a particolari tipi di attività, come l’energia verde o l’edilizia popolare.
Questo tipo di intervento governativo equivale a scegliere i vincitori e gli sconfitti dell’economia, un lavoro nel quale il governo fallisce regolarmente, e prepara il campo al capitalismo amicone, nel quale saranno le imprese ben introdotte e politicamente à la page a mietere successi nel mercato politico.
Sono trascorsi precisamente 2 anni dal bail-out e la nuova amministrazione Obama ha approvato il pacchetto di stimolo fiscale. È ancora convinto dell’affermazione precedente?
Sono stato scettico sin dall’inizio sui benefici del pacchetto di stimolo del governo, soprattutto su di un pacchetto fondato più sulle spese invece che sui tagli alle aliquote marginali. Non sapremo mai cosa sarebbe accaduto senza il pacchetto, quindi, non potremo mai affermare che non sia servito a nulla. Quello che è certo però è che la performance dell’economia non è stata all’altezza dei risultati attesi, anzi indicati nel presentare il pacchetto. Inoltre, molte considerazioni suggeriscono che lo stimolo può addirittura danneggiare la ripresa economica. Qualsivoglia progetto di stimolo che non sia basato su criteri costo-beneficio per migliorare la produttività è un male per l’economia e la possibilità che questo tipo di progetto venga varato aumenta in maniera esponenziale quando lo si approva di fretta. Infine, gli stimoli richiedono ulteriore tassazione e questa tassazione distorce gli incentivi economici e riduce la produttività economica. In senso più ampio, gli stimoli e tutti gli altri tentativi di governo di gestire l’economia aumentano l’incertezza, ritardano gli aggiustamenti necessari per la struttura dell’economia, ed incoraggiano la dipendenza sul governo invece che sui meccanismi privati che, in fin dei conti, potrebbero funzionare meglio delle politiche statali. La riduzione delle aliquote marginali sarebbe stata uno stimolo molto più efficace. Questo tipo di tagli sarebbero perfettamente in linea con la tesi Keynesiana sugli stimoli e avrebbero aggiunto un bonus per migliorare gli incentivi economici. Un’aliquota più bassa per il reddito d’impresa avrebbe stimolato gli investimenti e quindi l’occupazione. Avrebbe attratto capitali da oltreoceano e l’impatto sul deficit di bilancio sarebbe stato modesto a causa di quello positivo sulla produttività economica.
Anche gli ottimisti non possono negare che il mondo stia ancora affrontando una crisi economico-finanziaria forse mai sperimentata prima d’ora. Quale strada intraprendere?
Non credo che la crisi finanziaria sia l’ostacolo principale alla prosperità economica; lo è invece la crescita incontrollata dei diritti acquisiti e quindi del debito nazionale. In molti paesi tutto ciò condurrà a crolli fiscali. Gli USA e l’Europa possono prendere due strade per tenere sotto controllo il loro debito. La prima è aumentare le tasse, strada poco efficace perché una maggiore tassazione rallenterà la crescita e porterà ad un aumento limitato del gettito fiscale. La seconda sono i tagli alla spesa. Questa potrà sia rallentare l’aumento del deficit nazionale che stimolare la produttività economica nel ridurre gli effetti negativi creati dai generosi programmi previdenziali e sanitari. In moltissimi casi questi programmi sono controproducenti e devono essere ridimensionati, a prescindere dalle preoccupazioni di bilancio. Riduzioni nella spesa per i diritti acquisiti migliorerebbero la struttura degli incentivi economici. Alcuni esempi? Aumentare l’età per la pensione e la compartecipazione dei pazienti ai costi dei servizi sanitari, ma che sia interamente deducibile dalle tasse. Questi cambiamenti sarebbero importanti a prescindere dalla situazione finanziaria.
Il dibattito sui super bonus dei manager, soprattutto di quelli del mondo della finanza, è sempre più scottante. Spesso questi compensi appaiono ingiustificati, soprattutto alla luce dei risultati. Pensa che sia possibile trovare una nozione condivisa di etica nel management, che rispetti sia i valori etici che quelli economici?
Condivido il fatto che i compensi appaiano eccessivi, ma il modo corretto per limitare l’eccesso di remunerazione è lasciare che le società fallimentari falliscano. Gli Usa e l’Europa hanno messo in corto circuito il sistema con il salvataggio delle istituzioni finanziarie di Wall Street. Le politiche che hanno messo direttamente i bonus nel mirino non avranno molti risultati perché le istituzioni finanziarie troveranno sempre il modo per eludere questi limiti. Questi tentativi sono semplicemente una risposta demagogica per rispondere alla rabbia popolare sui salvataggi. Solo una nozione di etica nel management ha per me senso: fare in modo che il mercato faccia fuori chi non è all’altezza. Puntare al profitto non è un peccato! Rende l’economia più produttiva e quindi la torta da dividere sarà più grande per tutti.
Editoriale
21 ottobre 2010: il Commissario Europeo al Mercato interno Michel Barnier introduce nel dibattito politico una riflessione sulla possibilità di far fallire le banche, anche quelle grandi, evitando di addebitare i costi su tutti i cittadini, come è successo negli ultimi due anni sia negli Stati Uniti che in Europa. L’obiettivo è quello di scongiurare l’alternativa tra la catastrofe di un fallimento non organizzato e il salvataggio con i soldi pubblici, superando la questione del troppo grande per fallire. Le implicazioni sono molteplici, e non è certo questo il luogo per esaminarle, ma siamo certi che dall’altra parte dell’oceano, qualcuno avrà pensato: era ora! L’economista americano Jeffrey Miron, protagonista di questo numero di Primo Piano Scala c, ha sostenuto sin dal crac finanziario del 2008 che l’intervento dello Stato può creare diseguaglianze; una voce, al tempo, quasi solitaria che ha continuato a ribadire la necessità di almeno circoscrivere gli interventi governativi e impedire l’espansione del perimetro pubblico. I fautori di questa linea si definiscono libertari (libertarians) poiché, come scrisse l’economista austriaco Joseph Alois Schumpeter, nel mondo anglosassone i nemici del libero mercato si sono appropriati della parola Liberalismo. Nell’America dove liberal sta per socialdemocratico si usa quindi la parola libertarismo. Il libertario harvardiano Miron è a dir poco scettico riguardo ai tentativi dello Stato di farsi arbitro e regolatore del gioco competitivo; in un mercato libero, sostiene, nessuno riceve privilegi speciali dal governo. Nella crisi, secondo Miron, solo al principio di eguaglianza, elemento fondante del mercato, non è stato garantito il bail-out, e la logica dell’emergenza ha portato solo all’ampliamento dei poteri pubblici. Miron suggerisce che i governi, prima di procedere ai salvataggi, avrebbero dovuto cercare di immaginare gli scenari possibili con e senza di essi, da almeno tre punti di vista: impatto sulla distribuzione della ricchezza, sull’efficienza economica e sulla lunghezza e profondità della distruzione di ricchezza nel breve periodo. Invece i salvataggi hanno sovvertito la regola fondamentale del mercato: chi rompe paga. Il passo verso la Responsabilità è breve. Responsabilità di impresa che è uno degli elementi chiave della filosofia di Telos. Miron infatti ci dice che i salvataggi hanno tolto alla parola rischio il senso più autentico, ovvero farsi carico in prima persona delle possibili conseguenze delle scelte sbagliate. Il diritto di scegliere implica la disponibilità a sopportare i costi delle scelte, quindi la responsabilità. Responsabilitarismo certo non ha un bel suono, ma potrebbe essere il termine giusto per una filosofia politica ed economica che non rinuncia a considerare le imprese (e le persone) come adulti, e non bambini che corrono ogni azzardo perché tanto c’è chi penserà a raccogliere i cocci.
Mariella Palazzolo

Il Prof. Jeffrey A. Miron, economista, è tra i più accesi e visibili critici del bail out e del pacchetto di stimolo fiscale dell’amministrazione Obama. La sua specializzazione è il Libertarismo. Con il suo ultimo libro Libertarianism, from A to Z, voce dopo voce, nell’argomentare limpido e geometrico, ci fa capire il significato dell’essere favorevoli ad una rigorosa limitazione del potere politico. Senior Lecturer e Direttore degli Undergraduate Studies del Dipartimento di Economia di Harvard, Miron è stato, per sei anni, a capo del Dipartimento economico dell’Università di Boston. Nel 2005 ha pubblicato un importante studio dal titolo The Budgetary Implications of Marijuana Prohibition, con conclusioni favorevoli alla depenalizzazione. Miron è anche una star tra gli studenti. Negli ultimi 5 anni è stato indicato tra i professori preferiti dalla classe dell’ultimo anno di Harvard. Il suo corso dal titolo A Libertarian Perspective on Economic and Social Policy, ha registrato l’iscrizione di 800 studenti in 4 anni. Scrive sul blog jeffreymiron.com.