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Marzo 2018, Anno X, n. 3

James Kirchick

Un nazionalismo democratico illuminato per l'Europa

I politici e gli intellettuali tedeschi parlano spesso di come ogni loro azione sia al servizio di una causa più grande (di solito l’Europa). Ma sovente le politiche di Berlino sono adottate in nome di interessi puramente nazionali

Telos: Il Suo primo libro ‘The End of Europe: Dictators, Demagogues, and the Coming Dark Age’ parla del populismo in Europa. Come mai si è interessato a questo fenomeno?

James Kirchick: Il mio interesse per la storia, cultura e politica europea dura da parecchio tempo. Nei miei anni universitari a Yale, ho studiato la Guerra Fredda e ho trascorso un’estate nel Regno Unito come collaboratore di un membro del Parlamento britannico. Dal 2010 al 2013, sono stato giornalista corrispondente dall’Europa. Il mio primo incarico fu Praga, come editorialista per Radio Free Europe/Radio Liberty. Da Praga ho iniziato a viaggiare in lungo e in largo nell’ex Unione Sovietica. Subito dopo mi sono stabilito a Berlino, e lì ho lavorato come ricercatore presso la Fondazione Robert Bosch. Sono poi tornato negli USA e mi sono stabilito a Washington, ma sono tornato in Europa con grande frequenza.
Dopo diversi anni trascorsi a fare il reporter in giro per l’Europa, mi è balzato all’occhio che la maggior parte delle cose che scrivevo appartenevano invariabilmente ad una di queste categorie: il revanscismo russo e l’ingerenza nelle politiche europee, l’ascesa dell’antisemitismo, l’indebolimento delle relazioni transatlantiche, l’assenza di leadership da parte degli Stati Uniti, e il predominio sempre più diffuso dell’illiberalismo. L’Europa contemporanea, che mi hanno sempre insegnato essere un luogo di pace e prosperità senza pari, sembrava scivolare nella direzione sbagliata su tutti questi fronti. L’annessione della Crimea da parte della Russia (giustificata con lo stesso pretesto utilizzato da Hitler nell’annessione della regione dei Sudeti) e il fatto che molti in Occidente non sembrarono comprendere la gravità di ciò che era accaduto, mi ha fatto pensare: è arrivato il momento di raccogliere i miei pensieri in un libro.

Nel Suo libro, con il suo viaggio in sette nazioni ‘casi-studio’, Lei traccia un quadro a tinte fosche dell’Europa contemporanea. Eppure, nelle conclusioni, vi sono alcune previsioni ottimistiche che suggeriscono che, forse, la fine dell’Europa non è poi così vicina. Davvero?

L’aspetto positivo di essere un pessimista è che non sei mai deluso dalle ultime notizie, ed a volte ne sei addirittura compiaciuto. Scherzi a parte, vi sono diverse motivazioni per essere ottimisti sul futuro dell’Europa. Rispetto a quando ho iniziato a scrivere "La fine dell’Europa" nel 2014, se guardiamo alla Russia, la gente è più attenta e preoccupata dalla minaccia che il regime di Putin può porre. Certamente, il sospetto di un intervento di Mosca sulle elezioni presidenziali USA ci ha fatti svegliare. Uno degli argomenti del mio libro è come l’Europa Occidentale abbia sempre avuto un’allarmante tendenza a sottovalutare gli avvertimenti che venivano dall’Europa dell’Est sulla Russia. Nonostante ciò vi sono ancora molti in Europa Occidentale, che minimizzano la minaccia russa, ma non sono più così influenti come una volta. Allo stesso modo, anche l’elezione di Donald Trump sembra che abbia fatto riconsiderare il fascino del populismo. Detto questo, la nuova Presidenza USA potrebbe avere un effetto positivo sull’Europa, costringendo i suoi leader a diventare più autosufficienti. Il lato positivo delle sue costanti critiche all’Europa per i finanziamenti troppo esigui per la difesa, è che i membri della NATO hanno iniziato a spendere di più. Non apprezzo il suo comportamento – quando accusa i nostri alleati di essere approfittatori – ma non sbaglia quando dice che gli alleati NATO degli USA hanno dato per scontata la nostra garanzia di difesa. Sul fronte economico, l’Eurozona sta mostrando alcuni segnali di ripresa, ma è ancora troppo presto per essere ottimisti sul lungo termine. Se poi osserviamo la questione dell’Islam in Europa, purtroppo solo una serie di attacchi terroristici è servita a scuotere la classe dirigente e far comprendere che assimilare masse di immigrati musulmani è un obiettivo molto più difficile di quanto si fosse ipotizzato in origine. La distanza di punti di vista tra l’élite e l’opinione pubblica sull’immigrazione musulmana in Europa dovrà diminuire nei prossimi anni oppure ci dobbiamo aspettare di trovare in tutto il continente personaggi fotocopia della Le Pen, etc.

La Germania è, senza dubbio, il Paese che guida le politiche UE. Eppure Lei ha recentemente descritto la politica estera della Germania come ‘spesso unilaterale e nazionalista’. È una lettura estremamente interessante e provocatoria. Vorrebbe dirci qualcosa in più?

Per la sua storia, tutto ciò che evochi il nazionalismo è considerato un vero e proprio tabù più in Germania che nel resto d’Europa. Solo perché il nazionalismo è ufficialmente tabù non significa che i tedeschi siano tutti degli altruisti fautori del multilateralismo. Questo vuol dire che esiste una grande distanza tra la retorica tedesca e la realtà. I politici e gli intellettuali tedeschi parlano spesso di come ogni loro azione sia al servizio di una causa più grande (di solito l’Europa). Ma sovente le politiche di Berlino sono adottate in nome di interessi puramente nazionali. Mai come nel caso dell’energia è chiaro questo orientamento, laddove l’appoggio da parte della Germania del gasdotto Nord Stream è direttamente in contrasto con la Politica energetica dell’Unione Europea. Pur di ottenere un prezzo dell’energia più basso, la Germania è disponibile ad ignorare le preoccupazioni sulla sicurezza avanzate dai Paesi vicini dell’Europa Centrale e dell’Europa dell’Est, guarda caso anche loro alleati NATO e membri dell’UE. La diffusione di un sentimento pro-Russia in Germania va a scapito della solidarietà europea. Vorrei inoltre aggiungere che l’approccio della Germania alla crisi dei rifugiati – cioè l’apertura dei propri confini a circa 1.5 milioni di persone senza aver prima consultato gli altri membri dell’UE – è stato un esempio di umanitarismo unilaterale, intrapreso in parte per alleviare lo storico senso di colpa tedesco – senza grande considerazione per le possibili reazioni degli altri Paesi europei. Un altro esempio lampante è come l’Euro abbia funzionato a meraviglia per l’economia tedesca, creando un vasto mercato per i prodotti tedeschi. Tuttavia i tedeschi parlano dell’Euro come se fosse un peso per loro: qualcuno nostalgicamente parla anche di tornare al Marco tedesco. È vero che la Germania ha sostenuto l’onere maggiore del salvataggio di alcune economie europee, ma questo onere non può certo compensare i vantaggi economici che la Germania ha tratto dall’essere membro dell’Eurozona.

La difesa dei diritti LGBT. Questa è un’altra delle sue battaglie. Cosa pensa del ruolo dei media nella lotta per la parità LGBT in tutto il mondo?

Il ruolo dei media dovrebbe essere quello di raccontare la verità. E la verità è che il modo in cui una società considera le persone LGBT dice molto sulla sua moralità in generale. Non dovrebbe essere una sorpresa che le società più ricche, democratiche e socialmente egualitarie (penso ad esempio a quelle del Nord Europa) siano le prime in assoluto a promuovere all’eguaglianza LGBT, mentre la Russia di oggi – dispotica, corrotta, crudele - ha fatto dell’omofobia una politica di stato, che esporta anche all’estero. Posso fare un esempio su come noi giornalisti possiamo usare la verità a sostegno dell’uguaglianza LGBT. Nell’agosto 2013, il canale televisivo finanziato dal Cremlino RT (prima conosciuto come Russia Today) mi invitò a parlare della condanna di Chelsea (nata Bradley) Manning, il soldato dell’esercito USA che ha fornito documenti riservati a Wikileaks. Nella maggior parte dei casi, avrei categoricamente rifiutato di apparire su RT - o qualsiasi altro canale fittizio di notizie, manovrato da un regime autoritario che arresta ed uccide i giornalisti – dal momento che apparire su canale di questo tipo, anche se per esprimere un’opinione ostile rispetto alla sua linea editoriale, porterebbe ad un immeritato grado di legittimazione. Stavo per scrivere una mail al produttore spiegando questo punto di vista quando mi è venuta in mente un’idea. Perché non utilizzare questa opportunità per mettere in imbarazzo RT, alla stregua di un collega che anni addietro proclamò i nomi dei prigionieri politici iraniani su Press TV, un canale televisivo finanziato dalla Repubblica Islamica dell’Iran? Avevo un motivo di lotta, da strombazzare, già pronto: solo qualche settimana prima, la Duma aveva approvato, all’unanimità, una legge che proibiva di fare propaganda pro-gay, suscitando verso Mosca una disapprovazione globale che non si vedeva dai tempi del movimento per la difesa dei diritti del Soviet ebraico. Perché non incanalare quell'energia per mostrare la natura sinistra di RT su RT stesso, attirando l’attenzione sui più grandi problemi causati dal regime russo e dal suo apparato di disinformazione? Armato soltanto di un paio di bretelle con i colori simbolo dell’arcobaleno e la mia legittima indignazione, e con una vaga idea di cosa avrei detto, ho ‘preso in ostaggio’ il programma per denunciare l’omofobia di Stato della Russia e chiedere ai miei ospiti come fosse possibile per loro considerarsi giornalisti e “andare a dormire la sera” nonostante le persecuzioni e gli omicidi dei reporter. Dopo due minuti di dibattito, RT ha interrotto la trasmissione. Immediatamente dopo l’interruzione, sono diventato bersaglio di offese al vetriolo da parte di troll anonimi su Twitter e di personaggi ossessionati di complotti contro RT. Il filmato è diventato subito virale, con circa 800.000 visualizzazioni on line e menzioni su quotidiani e siti web in tutto il mondo. Personalità diverse, quali l’attore inglese Stephen Fry e il Presidente dell’Estonia, hanno twittato il loro sostegno al mio intervento. Una settimana dopo, ho parlato a migliaia di persone che protestavano contro questa legge fuori dall’imponente palazzo dell’ambasciata russa sull'Unter den Linden a Berlino. Questo scontro personale con RT ha fatto di me il giornalista ideale per parlare, solo tre mesi dopo, della guerra lampo che la Russia aveva scatenato in risposta alle proteste dilagate in Ucraina.

Marco Sonsini

Editoriale

Più di una volta ho scritto che la programmazione della pubblicazione delle nostre interviste non risponde ad una precisa scelta editoriale, ma è dettata quasi sempre dal riscontro che abbiamo dai nostri intervistati. Eppure la dea bendata, che aiuta più gli incapaci che gli audaci, ci viene spesso in soccorso. Questo numero ne è l’ennesima prova. Primo Piano Scala c ospita James Kirchick autore di un bellissimo libro, ancora non pubblicato in Italia, dal titolo molto eloquente The End of Europe: Dictators, Demagogues, and the Coming Dark Age, che tradurremmo così ‘La fine dell’Europa: Dittatori, Demagoghi e l’arrivo di un nuovo Medio Evo’. Il libro scorre tra le principali linee di frattura dell’Europa di oggi, da Nord a Sud, da Ovest a Est, e registra con preoccupazione il crescente entusiasmo dei conservatori per il presidente russo Vladimir Putin, sentimento che si ritrova anche nei circoli repubblicani statunitensi, e, a nostro avviso, non semplicisticamente spinto dalla controinformazione russa. Non ci limitiamo però a chiedergli del suo libro, ma altro argomento di grande interesse è l’analisi fatta da Kirchick sui leader tedeschi, che descrive come politici lucidi che scientemente portano avanti l’interesse del proprio paese, spesso mascherato dietro la ricerca del bene comune europeo. Da Adenauer a Brandt, dallo storico ministro degli esteri Hans-Dietrich Genscher fino alla Merkel, secondo Kirchick, dipingono la propria politica estera come l’epitome di un altruistico multilateralismo. Indimenticabile l’intervento dell’allora ministro degli esteri Gabriel, che in un discorso all’Assemblea Generale dell’ONU ha condannato ‘l’egoismo nazionale’ e ha dichiarato, in un poco nascosto attacco a Trump, che ‘il motto la nostra nazione viene prima, porta solo a scontri tra paesi ed è un pericolo per la prosperità’. Ma Kirchick dissente da questa rappresentazione tedesca della realtà, e ribadisce più volte che i peana che Berlino intona al multilateralismo e i rimproveri al nazionalismo, fanno schermo ad una politica estera spesso unilaterale e nazionalista. E porta qualche esempio pratico a sostegno di questa tesi. Notizia dell’ultima ora è che Gabriel non farà parte del nuovo governo tedesco, e il suo incarico, pur rimanendo appannaggio dell’SPD, andrà ad un diverso esponente del partito. Cambierà qualcosa? Staremo a vedere.
Attacco feroce a Putin, una piccola dose di ottimismo sul futuro dell’Europa - si, ritroverete anche questo - l’ultima parte dell’intervista a Kirchick è dedicata ad uno dei suoi altri cavalli di battaglia: la lotta per i diritti LGBT. La storia che ci racconta come esempio di cosa la stampa può fare in questa battaglia è davvero entusiasmante. Non vi resta che leggerla, e il tempismo involontario di questa intervista lascio a voi interpretarlo.

Mariella Palazzolo

James Kirchick

James Kirchick è Ricercatore presso il Center on the United States and Europe and Project on International Order and Strategy del Brookings Institution. Autore di “The End of Europe: Dictators, Demagogues and the Coming Dark Age” (Yale, 2017), è corrispondente per The Daily Beast, editorialista per il Tablet Magazine, e collabora con, tra gli altri, il Los Angeles Times, Washington Post, Frankfurter Allgemeine Zeitung, Politico, Foreign Policy, The Weekly Standard, e Commentary. Kirchick si occupa di politica europea e americana, e dell'alta strategia USA. Ha iniziato la sua carriera di giornalista per The New Republic, dove si occupava di politiche interne, lobbying, intelligence, e politica estera americana. Nel 2010, si trasferisce a Praga per fare il corrispondente per Radio Free Europe/Radio Liberty, e da lì viaggia molto per raccontare la cultura e le politiche dei 21 Paesi nei quali RFE/RL trasmetteva. Tra i suoi reportage ricordiamo le elezioni presidenziali truccate in Bielorussa del 2010, la pulizia etnica nel Kyrgyzstan e la Guerra civile in Libia. Prima di arrivare alla Brookings, è stato per quattro anni ricercatore presso il Foreign Policy Initiative a Washington. Tra le voci più importanti impegnate nella difesa dei diritti degli omosessuali USA e dei diritti internazionali per i gay, è vincitore del Premio “Journalist of the Year” della National Lesbian and Gay Journalists Association ed attualmente sta scrivendo la storia della comunità gay di Washington per la casa editrice Henry Holt. È stato ricercatore alla Robert Bosch Foundation a Berlino, è socio del PEN American Center e membro temporaneo del Council on Foreign Relations. È spesso commentatore in tv e alla radio. Nato e cresciuto a Boston, nel Massachusetts, si è specializzato presso la Roxbury Latin School e laureato in Storia e in Scienze politiche a Yale.

Marco Sonsini